Solo Cose Belle.

standard 15 aprile 2013 28 responses
C’era la luna sottile.
C’era l’aria tiepida.
C’era quell’aria leggera, che ti coglie solo nel momento in cui puoi essere colta. 
Non un attimo prima, non un attimo dopo.
C’era quel bagliore flebile, breve, della luna sottile.
C’era quella bilancia, che pesa tutte le parole, quelle necessarie.
C’era un’unica cosa da fare.

Chiudere gli occhi.
Non farsi domande, non cercare affannosamente risposte, non avere paura, dimenticare il buio e vedere solo quella fettina di luna sospesa, con un fine filo da pesca che la sorregge, ancora così delicata ma statica, presente.

Ho chiuso gli occhi.
Ho provato a scedere gli scalini senza guardare, tastando con il piede scalzo cosa c’era sotto.
C’era la terra, in fondo al pozzo. Umida, fertile, viva.
Un piccolo germoglio, illuminato dal chiarore lunare mi ha sfiorato la pianta del piede, sensibile al tatto di qualsiasi forma di vita. 

Occhi chiusi, sensi attenti.
Occhi chiusi, mani strette.
Occhi chiusi, luna crescente.

Vladimir Kush – Lock
Ho la testa nel “palloncino” in questi giorni. 
Perdonate la mia assenza quasi totale dai vostri blog (e dal mio) ma sono sotto evento a lavoro, ho la scrivania che sembra un campo da battaglia (dopo la battaglia) e da metà settimana sarò irraggiungibile/incontattabile ma soprattutto INSOPPORTABILE per altri sette giorni circa. Spero di ritrovarvi al mio “ritorno” virtuale, spero di leggervi ogni tanto per assaporare le vostre parole che amo così tanto leggere. 
E poi…il 27 aprile si avvicina. Io ho avuto un meraviglioso antipasto venerdì scorso con l’avvocato più pazzo della blogosfera di passaggio a Firenze (? la mia Vaty ?).
Vi mando un po’ della luce che vedo di riflesso dalle finestre aperte.
Questo nuovo sole è così intenso che mi toglie il fiato.

Poison. Di veleni e di grovigli.

standard 5 aprile 2013 51 responses

I want to hold you but my senses tell me to stop
I want to kiss you but I want it too much 

I want to taste you but your lips are venomous poison
You’re poison runnin’thru my veins
You’re poison, I don’t want to break these chains

Come sempre. Ti svegli con un pelino di ritardo, fuori piove.
Ti vesti, abbinando in modo armonioso tutti i dettagli, fai una carezza alla gattina che dorme sul cuscino, invidiandola per la sua nullafacenza quotidiana.
Ti prepari le fette biscottate con la marmellata, un bicchiere d’acqua.
Ombrello, due passi fuori, macchina.
E alla radio passano proprio la canzone con quel testo evocativo che fa tanto dito nella piaga

I  W A N T  T O  H O L D  Y O U  B U T  M Y  S E N S E S  T E L L  M E  T O  S T O P

E’ ufficiale. Stamani, insieme alla mia cresta, ho agghindato anche la Torre di Babele che mi faceva compagnia dentro la testa. Alta, incasinata, piena di colori e di piccoli dettagli infinitesimali. Ma si sa, i dettagli sono ciò che forma l’insieme. E questa torre di pensieri è lì. Vacilla, è formata da tessere di un domino verticale che non so gestire, è una centrifuga di colori, di sensi, di sapori, di piccoli granelli e bacche rosse, di arcobaleni che ancora non conosco. 
Bello eh? Indubbiamente. Se non ci siete dentro è bellissimo. Da fuori lo spettacolo è evidente, come l’aurora boreale. 
Ma le infrazioni, le emulsioni chimiche, le rifrazioni della luce sono così tante. 
E non rimane che lasciarsi andare?
Lasciarsi tentare?
Assaggiare le caramelle da tutti i dieci sacchettini che ho davanti. Ecco quello che farò. 

Come sempre. Ti svegli con un pelino di ritardo, fuori c’è il sole.
Ti vesti, leghi le tue codine in alto, a fare il solletico al cielo.
Ti prepari la sacca per andare a fare un pic nic, ma nella sacca ci sono solo tante caramelle. Tanti gusti diversi, tanti sacchetti colorati.
Occhiali da sole, due passi fuori, anzi qualcuno in più. 
Ballerine ai piedi, via le odiate calze, il fresco sulla pelle ancora bianca, sembianza invernale da cambiare, come la pelle di un serpente albino.
E sei nel luogo del cuore. In quel posto dove vince il cemento, dove vince l’uomo. Ma la natura c’è, è potente. E’ un flusso sull’impossibile. 
Il luogo del cuore dove staccare la spina da tutto, dove accoccolarsi stringendo le ginocchia, dove ascoltare solo il R U M O R E forte che risuona a Babele, special guest della mia testa oggi, questo venerdì furioso e fuori controllo.

Ti siedi, nel luogo del cuore. Metti i sacchetti di caramelle davanti a te. Assaggia, mastica, assapora, rompi con i denti per far uscire il succo, percepisci le differenze.
Aspetta. Aspetta fino a che l’ultimo frammento, come una scaglia di vetro, scende in fondo allo stomaco, lasciando segni del suo passaggio.
Fino ad allora prendi uno ad uno i capi di tutti i gomitoli che si sono attorcigliati e cerca una via. Per non impazzire.

Vladimir Kush – Mythology (2011)

Questo artista mi ha folgorato. Le sue opere sono meravigliose, tutte. Fatevi un regalo oggi, guardate il suo sito o digitate il suo nome su google immagini, sarà un viaggio immaginario bellissimo, pieno di colori, luce, fiori, leggerezza e visioni. 
L’opera che ho postato è un piccolo riassunto di ciò che vedo quando chiudo gli occhi oggi. 
In pratica…un gran bel casino.

Un piccolo puntino marrone.

standard 2 aprile 2013 58 responses
Sposerò Simon Le Bon (1986)
Idoli.
Idoli come wodoo nei quali affondare spilloni.
Idoli come passione, che lo spillone sia dardo infuocato di Cupido, cecchino infallibile.
Idoli, ma sono persone.
Idoli come ispirazione.
Idoli come tu, che mi tormenti. 
Ma quando mi piace essere tormentata da te, mio Muso ispiratore le cui apparizioni si annoverano come nelle enciclopedie astronomiche annotano le apparizioni della cometa di Halley. 
Rare, fuggevoli, abbaglianti, da seguire con la pecorella al collo verso la grotta di Betlemme, in pratica.
Però…per quella maledetta lampadina che cerco come un piccolo faro nella notte del mio oceano tempestoso, non ci può essere di meglio. 
Lui è la mia Eleonora Duse. Certo, non ha la sua grazia, le sue doti e non fa l’attrice, e credo che preferirebbe essere usato come wodoo (di cui sopra) piuttosto che come ispiratore del mio acuto, ma talvolta empio cervelletto nella sua parte creativa, ma tant’è. Non tutto si può decidere nella vita.
Come la posizione dei nei.
Una mattina ti svegli e ti trovi un neo che la sera prima non avevi.
Ed è lì, tu non puoi far altro che constatarlo, osservarlo da tutte le angolazioni possibili, misurarne con gli occhi la dimensione, cercare di capirne il significato, ma rimanere inerme. Lui è lì. 
Un neo sul mio cuore. Indelebile, come piace a me.
E uno sul mio dito. Sul mio pollice destro. Che mi aiuta a scrivere, quando lo guardo, che mi ricorda che io sono tutta intorno a quella macchiolina marrone, ma sono anche quella macchiolina marrone. 
Ci sono tanti nei sulla mia pelle. Molti li nascondo, altri li mostro come fossero trofei, tatuaggi naturali del passaggio di qualcuno, recenti o passati, adolescenziali o dimenticati.

E poi ho capito.
E’ così che funziona. L’amore è una doccia calda. Piacevole, infinita, definita quando esiste. Spietata, gelida, instabile appena la doccia si chiude.
Basta acqua, non più sensazioni. Solo dolore.
Rimane la pelle bagnata, le gocce che subito da bollenti pillole di sollievo diventano piccoli ghiaccioli da agopuntura.
E’ così che funziona.
Bugie, ripercussioni della realtà, racconti di mille Shutter Island, di scalinate di Escher senza via d’uscita o maniglioni anti panico.
E poi ho capito.
Funziona che tu sei l’ombra di quella goccia evaporata, neo disegnato, profonda ombra ma evanescente, tu abiti la stessa medaglia con una doppia e opposta faccia. 
Tiro la moneta in aria.
E comunque cada…io sorrido.
Perchè nessuna doccia calda, nessun ghiaccio asfissiante, nessun Cupido sbagliato, nessuna follia, potrà cancellare questo neo, piccolo, insignificante, uguale ad altri cento, dal mio dito.

Quei soldati del mare.

standard 28 marzo 2013 65 responses
Quando sogni il lavoro (e il boss) non è un buon segno.
E poi il sogno si materializza sulla tua scrivania sottoforma di appunti, fotocopie, scarabocchi, post-it, dettagli da non dimenticare e mille altre cose ancora in fase di definizione…e ti rendi conto che non è solo un incubo da far scivolare via con un po’ di acqua fredda sul viso la mattina, ma la tua realtà!

Capo Bianco – Isola d’Elba, luglio 2010
Immaginatevi un ciottolo. 
Di quelli che si trovano a Capo Bianco, Isola d’Elba. Belli rotondi, levigati, che sanno di selvaggio quanto di salmastro, di onde che ti sbattono forte agli scogli, di risacche che ti attirano verso il mare e poi ti lasciano lì, a guardare l’orizzonte piatto, chiaro, acceso di caldo e di miraggi estivi. 
L’ultima volta che sono stata a Capo Bianco c’era il mare mosso. Il cielo era bellissimo, con le nuvole che sembravano stracciatella, era luglio pieno, caldo, vivo, ma non si poteva fare il bagno. Il vento ci sferzava la pelle abbronzata, l’acqua ci rincorreva in quella lisca di terra che rimaneva, costringendoci ad avvicinarci alla parete di scoglio anch’essa bianca. E poi le alghe secche, il sapore del sale sulla bocca, i piedi vicini alle onde troppo forti…e tutti i ciottoli sotto i nostri piedi.
Ogni passo ne prendevo uno tra le mani, per capire se era quello giusto, quello da conservare per ricodo della brevissima vacanza, quello da mettere vicino alla pianta grassa preferita, nella mia serra personale.

Immaginatevi di essere un ciottolo. 
Di essere levigati, bianchi, belli, forti, indistruttibili, sensibili.
Immaginatevi di essere presi tra le mani di qualcuno.
Mi chiudo, la mia forma è imperfetta ma ha un contorno, posso essere scelta. Mi sento leggera e, per essere un sasso, è strano. Mi hanno raccolta, accolta. Desiderata perchè sconosciuta, desiderata perchè con un peso specifico particolare, mai uguale a se stesso, in costante trasformazione. Tutta colpa della corrosione. 
Insomma io, ciottolo tra milioni di altri ciottoli, sono tra le mani sue. E queste mani mi soppesano, mi sfiorano la superficie e scrutano, dai piccoli fori, anche l’interno. 
Il ricordo di un’estate. 
L’insostenibile necessità dell’effimero. 
Essere e scomparire.
Presenza e assenza. 
Io, ciottolo dotato d’anima, guardo queste mani. Anulare, medio, indice. C’è dello spazio, c’è della luce. Ogni giorni si allargano sempre di più, io vacillo.
Trattenetemi vi prego, dita sconosciute. Ma il vento è troppo forte, l’orizzonte così irraggiungibile e attraente, le cose da fare sono tante, la smania incontrollabile. 
E io, ciottolo disarmato, torno sulla spiaggia.
Mentre cado l’aria calda e forte mi accompagna, quasi divento una piuma. Scendo a zig zag, con la dovuta calma.
E non mi dimentico di quanto sia difficile prendersi cura di qualcuno.
Che io sia ciottolo o che io raccolga quel piccolo sasso bianco da conservare, che io abbia una scrivania piena di scartoffie e un mese che mi aspetta denso come la cioccolata calda del bar, io voglio prendermi cura di chi amo. 
Perchè la vita è così fragile, passeggera. Cammino sul filo con il mio ciottolo tra le dita, lascio che il sole illumini le mie lentiggini e la mia pelle opaca di un letargo lungo e recito:

Si sta come d’autunno sugli alberi le foglie
Un soldato al fronte, trincee nemiche. 
Scelgo con pazienza i ciottoli da portare con me, che siano peso, zavorra nelle mie tasche, ma libertà e presenza costante nel mio cuore.
Ringrazio Boh e Debora per i loro premi delle settimane scorse. Non sono brava con queste cose e a volte mi dimentico…ma ora ce l’ho fatta! 
Sento la primavera forte, un tumulto. Sento che non devo smettere di leggere, studiare, imparare, conoscere. Perdonatemi se ogni tanto mi prendo qualche pausa dai vostri blog…se lo faccio è per poi tornare più ricca e meno ignorante di prima, almeno spero! Perdere ciò che si è acquisito in anni di studio è così facile, devo recuperare ciò che ho lasciato andare. Prendersi cura di se è la cosa migliore che si può fare per chi ci ama, oltre che per noi stessi. 

– Questo post lo dedico a te, mezzamelina del mio cuore. Sei speciale, te lo dimentichi troppo spesso. Guardati allo specchio e capisci il tuo contorno, la tua intensa energia, il tuo fuoco e le debolezze che hai scoperto. Sono solo dei doni, basta imparare a direzionarli nel giusto modo. Ti voglio bene. –

Run. Tu corri via.

standard 24 marzo 2013 58 responses

Cammini, di fronte a me la tua andatura veloce
Corri
Corri via
Corri perché io potrei non volere altre più labbra se non le tue
Primavera dei sensi
Rimani
Come io sfioro la tua superficie
Che non sia solo spruzzi delle onde di questo sentiero
Invaso dall’acqua
O forse solo un rivolo lento
Adagiato e corretto, composto nel letto del fiume.
Corri
Che il tuo sussurro svanisca
Che le tue ansie si raccolgano come ciottoli leggeri, abbandonati
Nell’ansa più vicina
Dove tutto si confonde, anche noi.
Che non sappiamo più chi siamo
Che abbiamo smesso di rincorrerci
Che siamo perseguitati dalle paure
Che siamo presuntuosi, superiori, incessanti, carichi
Che siamo poco pronti a guardare avanti
E allora guardiamo sempre qui, sempre ora, sempre noi, superbi noi, insieme,
Intrecci
Emozioni
Mani
Come un crescendo 
E invece cade
E si distrugge.
E io cosa sarò adesso?
Un’altra farfalla di vita breve, intensa ma sempre troppo breve
Per me che chiedo solo di amare
E questi cavi d’acciaio tirano troppo forte
Caviglie, mani, tutto si fa albero,
Mio Apollo
Io Dafne
E tu corri
Corri perché i tuoi cavi sono più forti dei miei
Ma sto imparando, lotto con le mie radici, per non tramutarmi ancora 
Per rimanere
Rimanere 
Essere
Vittima
Carnefice
Preda
Amante
Tutto. 

Ma pur sempre senza noi.

Una diversa Firenze

Il fiume

Cavi d’acciaio

Il Bacio.

standard 18 marzo 2013 87 responses
Il filo dei pantaloni strappati mi solletica la coscia destra. Sono jeans vecchi, di chissà quale provenienza.
Una cannottiera rosa e i miei capelli lisci, fini, color biondo scuro. Erano già corti, non tanto quanto adesso, ma non superavano le spalle.
Le cicale, le onde del mare, la sabbia tra i piedi. Una pineta di un posto qualunque, in un giugno qualunque, in una città di mare qualunque. Il profumo penetrante della resina, persistente. Il calore di una presenza vicina, il cuore che batte fino dentro le orecchie, i pensieri mescolati, offuscati. L’adolescenza ancora verde, come le pigne su quei pini che disegnano degli strani profili sui cieli d’estate. Così verde da non conoscere il significato delle illusioni, che le uniche lacrime versate sono quelle per gli amori presunti, per chi non sa nemmeno che esisti.
Una pineta e una panchina.
E il primo bacio.

Avete mai pensato a cosa sarebbe la vostra vita senza il Bacio?
Baci.
Bacio.
Baciare. 
Solo pensare alla parola mi provoca una certa difficoltà di espressione.
E così guardo lo schermo e cerco di ricordare.
Quante volte sono morta e risorta dopo un bacio.
Quante volte ne ho solo immaginato uno e desiderato quello che non potevo avere.
Quante volte ho pensato che era meglio non darlo, quante volte ho pregato disperatamente per averne uno ancora, quante volte ero io a non volerne dare. 
Quanti ancora ne darò o ne ho lasciati per strada.
Tutti hanno scritto sul Bacio.
E io sto cercando le parole. 
Ma sfuggono via. Sono lisce come il marmo, come il raso rosso di cui dipingo le mie voglie.
Sono tiepide come il ricordo di quel bacio che io chiamo uno ma in realtà sono stati cento, colibrì che fuggono con il loro rapido battito d’ali.

Una mano sui miei occhi.
Una sul mio collo.
Le tue.
Le mani del bacio perfetto.
Io maledetta e tu, maledetto con me.
Strappami i vestiti gli occhi i sospiri
Abbigliami d’erba e di respiri
Costringimi a guardarti ancora
Costringi questo contatto
E leggi quello che non scrivo
Perchè troppo vorrei dire
Perchè niente può descrivere
Unica testimone la mia Bocca
Piccola e pallida
Non scorre più sangue
Non ci sono più sguardi
Sento infinite sfumature di addio
Mai pronunciate 
Mai così vere
Sei desertico sei cattivo sei solo
Sono cieca sono povera sono avida
Vocabolario smarrito recita una sola parola.

Ancora.

Igor Mitoraj – in un parco di Paris
E così, con un bacio, io muoio. 
W. Shakespeare

Il destino di una percezione.

standard 26 febbraio 2013 39 responses

Quello che la nostra pelle abita non ha più le forme del reale
Ogni strappo è inesplorato e poco elastico
Si sfilacciano i tessuti
Rimane sospeso ogni contatto con il mondo
Scelgo di non capire
Quindi mi volto

Lo strappo della mia pelle che non si ricuce più
Anzi il suo rumore è infinito.
Scivola sfumato via da questo mio sguardo
Che veloce si volta.
E mentre vaghi colgo il tuo fiore.
Rimane solo un petalo dalle forme ovali
Attaccato con la resina
Colla
Miele

Trama e ordito come intrecci di radici
I miei piedi piatti, nudi, sulle mattonelle fredde
Non credo più alla percezione di trovare sollievo
Scelgo di non capire
Quindi mi sciolgo.

Se il Buontalenti non è un gelato…

standard 25 febbraio 2013 31 responses

«Conosci innanzitutto la quadruplice radice
Di tutte le cose: Zeus è il fuoco luminoso,
Era madre della vita, e poi Idoneo,
Nesti infine, alle cui sorgenti i mortali bevono»

Empedocle, 490 a.C.

Velluto o Seta,
Rossi come Fuoco.
Fuoco alle pareti, pregiato sfondo.
Pietre dure come Marmo, 
Terra per i nostri piedi fermi. 
La rosa dei venti come Vortice,
Attira il mio sguardo verso l’alto.
Madreperla e conchiglie come Acqua.
Il fondo del mare protegge la nostra meraviglia.

Tribuna degli Uffizi – Johan Joseph Zoffany (1773-76)
Ci siete mai stati agli Uffizi?
E la Tribuna degli Uffizi, quella stanza ottagonale progettata da Bernardo Buontalenti, su commissione del Granduca Francesco I de’ Medici, nel 1584, avete mai avuto la fortuna di visitarla? Conservava ed esaltava la grandiosità della famiglia Medici, portando alla luce opere classiche e attuali, divenendo da allora una delle Wunderkammer più ricche e d’ispirazione per le grandi famiglie d’Europa e per gli artisti che vi si recavano.
Una Camera delle Meraviglie
E i Quattro Elementi come cornice, ad esaltare ciò che custodiva. 
Certo non vorrei dilungarmi, era solo un accenno. L’incontro tra l’arte, la potenza dell’uomo, la storia, la filosofia, i valori più alti, tutti racchiusi in una sola stanza.
E il Buontalenti non è solo il gusto del gelato tipico fiorentino, tanto buono (panna e crema!) quanto fuorviante.
Ho avuto “l’ispirazione” di parlare della Tribuna degli Uffizi mentre andavo dai miei, sabato in tarda mattinata.
Pioveva. Nevicava. I rami degli alberi sulla strada parevano dei piccoli fantasmi bianchi carichi di leggerezza. E mi sono sentita investita dalle parole, dalla natura nella sua interezza. Ho dovuto chiamare mia sorella N. quattro o cinque volte per farle segnare dei versi che mi erano venuti in mente. Protagonista il fuoco. I colori. Tutto il contrario di ciò che vedevo. Vedevo bianco, vedevo grigio, acqua e neve. E la terra sotto di me. Poi le associazioni giocano sempre sporco, ti sorprendono e a quel punto sei fregata, non hai scampo se non scrivere.
Ho incubato questo post da quei 140km di qualche giorno fa, in cui ho pensato quanto il peso della relatività stia spingendo la mia vita verso inesplorati mondi.
Non ho interesse a spengere il mio cuore. E’ solo in stand by.
Può esistere un cuore in stand by? Forse si. 
Ma credo che questa aridità di emozioni non faccia al caso mio.
Si la tranquillità, si la pace dei sensi, si prendere tutto senza esagerare con reazioni “troppo” o “troppo poco”. Ma non fa per me, mi dispiace. 
Io scrivo. E mi nutro di questo. C’è chi disegna, chi fa la calza, chi cucina e chi fa shopping. 
Io scrivo.
E devo respirare amore. In qualunque modo esso sia. Questo stand by è solo un altro dei miei mille modi di vivere questi amori un po’ malati un po’ noiosi e un po’ poco “amori” di cui mi circondo.
Stanotte ho aperto gli occhi mentre sognavo l’acqua. Ero in barca, sola, in un’altra barca lontana c’era una persona che conosco bene. Il nero del lenzuolo mi ha confortato, ero a casa. Tutte le parole nella mia testa, combattevano per uscire. 
E la mia Wunderkammer rigogliosa e pulsante, come l’Etna, vulcano mai domo.
Questo per me è vivere. Pur sempre consapevole, pur sempre ignorante, penso a Buontalenti e non temo (forse) più questo flusso di emozioni.
Che sia fuoco.
Che sia vento.
Che sia acqua.
Che sia terra.
Che sia inverno, freddo, implacabile e costante, che tenta in ogni modo di rapirmi l’anima.

Iceberg. Di ciò che emerge e ciò che è sommerso.

standard 19 febbraio 2013 47 responses

Conto le sillabe delle parole che pronuncio.
Ne scandisco l’essenza.
Ogni lettera un grammo di peso, nella bilancia dell’orafo.
Ogni lettera un telegramma di addio, che mi costa più del mio stesso domani.

L’alfabeto cade dalla mia bocca, le parole che creo non hanno più alcun significato.

Sento questo scorrere denso del tempo, dell’ansia.
Sento che mi manca.
Sospendo ogni verbo, che posso pronunciare. Precipita giù.
Ha il peso di un neon di Merz.
Decido di non dire.
Non pronunciare nessuna parola, Berenice.
Non lo fare.
Non dire.
Non pensare.
Stai ferma.
Dosa le energie.
Medita.
Proteggi ciò che puoi dalle scorribande avide della realtà.
Non regalare il cuore dell’iceberg, che ancora, miracolosamente, pulsa caldo.

Se la forma scompare la sua radice è eterna – M. Merz (1982/89)

Sinceramente devo ancora capire come fare tutto questo.
E’ come se avessi in mano un libro e lo stessi leggendo al contrario, nemmeno le figure capisco.
Per ora mi limito a restare in attesa.
In attesa che si manifesti quella voglia lancinante che mi arriva fino all’ultimo nervo nel cervello e mi manda in tilt tutta la ragione, a favore dell’istinto.
Quella voglia lì. Quella che sa dove colpire. Che chiude lo stomaco, quella del capriccio.
Quella degli errori, dell’insistere sempre e comunque, quella che mi fa perennemente strisciare come se fossi un verme indegno di considerazione.
Quindi mi punisco, in attesa di giudizio.
Ma è una punizione consapevole, so’ che mi porterà alla piena assoluzione.
Insomma, da sabato questo iceberg mi galleggia nella testa.
Tatuato sulla fronte. No, questo no, almeno questo non è tatuato per davvero.
Un iceberg trasportato dai pensieri, oltre che dal flusso di sfiga dilagante di questo (lungo) periodo.
Quell’iceberg sono io.
Emersa, ma solo in parte.
Emersa per vivere e respirare, emersa perchè necessario.
Ma non sono sempre stata così, anzi, forse è la prima volta nella mia vita che accade.
Ho sempre vissuto alla luce del sole, con tutte le difficoltà e la spietatezza del caso.
Parlato, confessato, osannato, dichiarato.
Non ho mai nascosto nulla.
Ora faccio una fatica bestiale, una fatica fatta di sospiri e di rinuncie.
Ma nascondo, sotto lo strato marino di ghiaccio, un infinito iceberg interiore.
Fatto di strati, di pene, di osservazioni. Di lacrime che bagnano il cuscino prima di dormire, di solitudine. Di “arriverà, vedrai” che non voglio più sentire, di un nutrimento sterile e privo di linfa che non merita nemmeno di essere assecondato da uno sguardo.
Stringo i pugni per limitare i danni di conversazioni notturne fatte di confessioni mai del tutto celate.
Ma la notte è come il sole, porta a galla i desideri.
E i desideri della notte odorano di emozione.
Di corpo, di passione.
Sfuggono al controllo della mia percezione.
E l’iceberg torna a galla, riaffiora la punta spigolosa ma tutto il resto deve rimanere giù.
Nascosto dalle parole di troppo, ormai taciute, seppellito con forza, a due mani, senza sconti.
Quello che leggi tra le righe è vero.
Quello che non scrivo è vero.
Tu lo sai, anche se non lo scrivo.
Perchè ci sono certe storie che non lasciano mica spazio ai respiri.
Ne’ ai convenevoli, alle spiegazioni, alle giustificazioni.
E nemmeno alle mie “morbide” parole.

È stato un solco tracciato all’improvviso
senza certezze, senza prudenza
nell’ annusarci d’istinto e di stupore,
in un crescendo che ha dell’ irregolare.

 L’Odore – SubsOnicA

Ceci n’est pas amour.

standard 14 febbraio 2013 44 responses
La Trahison des Images (Ceci n’est pas une pipe) – Il tradimento delle immagini – R. Magritte (1928-29)      
Questo non è un blog.
E non è un post d’amore. E non è affatto amore tutto questo.
E non ci sono cuori, nel giorno dei cuori.
E’ solo la distorsione dell’amore, il suo riflesso, il surreale risveglio di una notte estrema.

In queste giornate arrabbiate, penso che il mondo vada al contrario.
Girando al contrario ha fatto impazzire l’ordine delle cose, la bilancia della giustizia, l’ordinario svolgimento della vita.
E così chi ama uccide.
E così chi soffre continua a soffrire.
E così chi ama viene ucciso.
E così chi ama continua ad amare, soffrendo.
Questo non è un blog.
E’ una dedica.
Una dedica alle vite spezzate ingiustamente. Che la sofferenza di una, portata alla luce dei riflettori perchè ci appare come famosa tragedia, sia per tutte le altre strazianti sofferenze un mantello capace di placare, per un istante, il dolore costante della perdita. Spesso ci dicono che chi ha meno avuto meno soffre, ci mostrano immagini di un dolore sorridente, dei bambini che non hanno ne acqua ne pane ma sorridono. Forse è così, quei bambini ignorano cosa possono perdere perchè non lo hanno. Noi che viviamo in questo mondo che crediamo civile invece, abbiamo tutto da perdere e lo rammentiamo ogni giorno. Ce ne lamentiamo ogni giorno. 
E oggi io lamento con rabbia ciò che perdo.
La fiducia.
Tradita, ancora.
Voglio dire tutto e non voglio dire niente.
Voglio disegnare questo senso di impotenza e farlo diventare vivo. Pietrificarlo con i miei occhi di Medusa e colpirlo dritto al volto, distruggendolo in mille pezzi.
Che ogni scaglia colpisca questa realtà frustrata, che il mondo fatto di persone smetta di essere impazzito, che quella che io vedo sia una sola giornata di incredulità. 
Perchè non voglio giustificare la mia prostrazione se mi sento profondamente colpita da una giovane ragazza innamorata e distrutta, nello stesso istante, dall’istinto e dalla paura. Ben più di una vita è morta in quel momento. Ben più di un’illusione. Quel gesto compiuto tradisce quanto l’umanità sia fallibile, seppur nelle sembianze di un bellissimo atleta mutilato o in quelle della sua fidanzata. 
Con l’unica colpa dell’amore.
“Non credo che l’uomo decida nulla, né il futuro né il presente dell’umanità. Penso che noi siamo responsabili dell’universo, ma questo non significa che decidiamo qualcosa.” R. Magritte