ANNA. LA LINEA BIANCA.

standard 7 gennaio 2015 22 responses

Una mano fitta di rughe, con un anello antico ornato di un’acquamarina, accende l’interruttore quadrato, di quelli in melamina, vecchio, che scatta facendo quel rumore inconfondibile, sordo, TAC! E la luce ad incandescenza, rimasta dalle scorte di qualche anno fa, quando si trovavano ancora così facilmente, si accende. Le mattonelle rettangolari e strette, color ospedale, di quel verdino chiaro e pastello decorano la stanza, il lampadario anni 70 la rifinisce, con quelle piccole gocce di vetro che riflettono la luce. E’ mattina presto. Anna e i suoi capelli vaporosi si muovono lentamente e leggermente, con lo spiffero della porta finestra del balconcino, finemente agghindato di piantine fiorite, nonostante sia novembre.

E’ mattina ed è buio. Anna si sveglia presto, le piace avere tutto sotto controllo, soprattutto ora che l’età non l’assiste più per tante cose, per l’energia che vorrebbe, per il tempo che le manca, per le sicurezze e le amiche che si diradano, lasciando dei vuoti pesanti e inconsistenti allo stesso tempo, violando i suoi desideri di rimanere attaccata a tutto, alla vita, ai respiri, alle cose, ai ricordi.

Anna ama le piante, associa il loro vivere al suo respiro, come se fossero una cosa unica, procede a piccoli passi verso la fioritura, nonostante l’età, perché quello che conta non è scritto sulla carta d’identità, ma nella vitalità portata con orgoglio dai segni, dalle rughe, dal rumore dei suoi  movimenti pacati ma mai totalmente assenti. La presenza della vita. La linfa, la clorofilla, il colore verde e intenso delle foglie e dei suoi occhi. Anna ama, spera, sorride. Non si spegne mai. Tanto è successo intorno a lei, da una società sommessa ha visto correre tutti verso una società arrogante e padrona, che ha reso tutti sempre meno individui e sempre più massa, cancellando identità e volontà, rendendo schiavi innocui e marionette con la testa bassa.

Anna, la sua 500 Abarth bianca, ormai ben poco all’avanguardia, piccola e anche un po’ lenta, le rende la vita un po’ più scomoda ma con quel profumo antico e vintage che solo la pelle invecchiata di quei seggiolini sanno avere. Ogni tanto qualche agitato automobilista le suona per metterle fretta, lasciandola stordita e contrariata, ma lei risponde sempre col sorriso, perché sa che non c’è niente di meglio per lasciare gli insolenti senza parole. Non si sente un giustiziere, non si sente perennemente nella ragione, ma le piace continuare ad accarezzare la vita delicatamente, senza vivere nell’indifferenza di un mondo senza volto.

Anna potrebbe raccontarci tante storie. Quelle del passato, della sofferenza del presente, della leggerezza in cui ha imparato a vivere, delle linee bianche che ha sorpassato, investito, guardato. Degli orizzonti corrispondenti ad altrettanti tramonti, dei capelli al vento, della passione giovane e quella matura. Anna potrebbe insegnarci che controllare la vita, seppur interessante, desiderato e a volte necessario, è impossibile.

tramonto fiorentino

Senza alcun controllo.

I dolori, le disavventure che da enormi diventano minuscole, i sospiri di ogni sofferenza, le tragedie. Tutto è fuori dal nostro controllo, per quanto ossessivamente ci ostiniamo a pensare che non sia così. Non è rincuorante, ma fa parte del pacchetto. Da quando veniamo al mondo ci sono situazioni avverse o favorevoli, alcune si fanno riconoscere altre si presentano come dei veri e propri incubi…questo fine/inizio anno è un piccolo specchio di tutto questo.

Il mio pensiero, le mie parole, le mie ore insonni, sono rivolte a chi amo e sta vivendo giornate interminabili e fuori controllo. Conoscessi la soluzione, esistesse il meccanismo per sbloccare le serrature dello sconosciuto, ne tirerei fuori combinazioni infinite. Il momento del silenzio, quello delle parole, tutto si mescola e si confonde, diventa una nebulosa, come quelle nuvole colorate dal sole del tramonto. I profili si dipanano, le ingiustizie si consumano, tutto diventa intollerabilmente pesante e pressante.

In qualche modo, senza alcun controllo, la vita scorre via. Ma è la nostra vita, non ne siamo padroni come vorremmo e non ne percepiamo sempre la bellezza, perché talvolta è diabolica e infingarda, ti trafigge e lascia senza fiato.

Vi mando un po’ del mio fiato, come fosse quel sospiro per dissipare l’ombra, un piccolo, flebile sussulto che renda il momento in cui arriva un grammo più leggero.

MANGIAFUOCO & LABIRINTI.

standard 16 giugno 2014 20 responses
N O N  C E  L A  F A C C I O  P I U’

Mi sembra di avere un’esplosione nucleare nello stomaco da tenere a bada.
Hai voglia a sospirare, respirare, trattenere il fiato, cercare di non affogare. Comunque non serve.
Quando il “malessere” arriva da qualcosa di esterno ed incontrollabile tu puoi solo tamponare come sai, ma spesso non basta, soprattutto quando la stoffa è logora, i buchi sono troppi e sei vulnerabile. Soprattutto quando la linea tra il sorriso e il vaffanculo è completamente erosa da settimane di falsa cortesia.
E dunque non ce la faccio più.
Vedo le stagioni passare, mi domando dove io abbia messo tutto l’entusiasmo, la competenza, le voglie e l’intensità. Mi rispondo che il Mangiafuoco che ho intorno, per ora, si è assorbito tutto.

D’altra parte i Mangiafuoco sono grossi, hanno una barbona nera e fluttuante, tanti capelli che sembrano una criniera, sono aggressivi, ingiusti, poco corretti e non coerenti, non prendono mai nessuna decisione per fare in modo che la colpa, alla fine, ricada su di te.
Sono perfidi, illegali, indifferenti. Agiscono platealmente con arroganza e, tronfi del loro potere, travolgono tutti sotto le loro scarpe firmate (ma inguardabili) che calzano ai piedi.
Sono famosi ma ratti infami che si aggirano nelle fogne, cercando errori e sotterfugi uguali ai loro. E il brutto è che non si sentiranno mai sporchi, mai paghi delle loro spregevoli situazioni luride, certi che la faranno franca, ancora una volta, anche dalla loro coscienza. Una fuga costante insomma. 
Una vita inaccettabile per me. Un modo insulso di abitare questo mondo. In queste persone non c’è dignità, non c’è riconoscenza, non c’è nessun tipo di cuore, di mente, di volontà, di positività, di ammirazione. Sono esseri vuoti, che si rendono Mangiafuoco per ingannarci, per sottrarci alla nostra vita semplice ma solida, sono invidiosi e ricchi della loro inutile furbizia, moneta il cui utilizzo rende pieno solo il portafoglio di chi non ne capisce la miseria.
Sono costantemente dubbiosi, perché sono i primi ingannatori.
Sono sempre con un piede in due scarpe, per avere la soluzione ad ogni eventuale inghippo.
Sono scaltri, ma senza nessun vantaggio se non quello di accaparrarsi altro nulla, altro vuoto, altre soddisfazioni folli e futili.
Mi vengono in mente i film che amavo da ragazzina, dove c’era un nemico da combattere, un male oscuro e distruttivo de La Storia Infinita, oppure una banda di delinquenti senza coraggio de I Goonies. Oppure i film che amo adesso, i libri un po’ visionari di Murakami, i fantasy di Tolkien. I protagonisti sono sempre dei soldati contro il male. Sia che il male sia una bella ragazza riluttante o un intero esercito di orchi sanguinari. Ecco…io pensavo che fossero solo storie da film, da libro, da storia da raccontare vicino al camino. Invece sono sempre più storie dei giorni nostri, della quotidianità, delle nostre vite così congestionate che ci fanno perdere, evidentemente, il lume della ragione.

Quello che posso fare, per me, per chi amo, per chi mi ama, è prendermi cura del mio piccolo orticello. Nutrirlo, amarlo a mia volta, vederlo crescere, osservarlo, proteggerlo.
Queste sono le uniche cose che posso fare. 
Ma diventa difficile percorrere queste strade, diventano intricati labirinti di sospiri e parole non dette. Ogni mattina se ne aggiunge una, mentre si sposta il lenzuolo per alzarsi dal letto. Ogni mattina stento a riconoscermi.
E per quanto si creda che l’amore sia una delle armi valide per sconfiggere l’ingiustizia ormai…non ci credo più. Sono tutti finti baluardi da issare sulle proprie navi. Io tengo la vela ammainata e viaggio a vista, godendo ogni dettaglio e lasciando andare tutto questo mondo fatto di Mangiafuoco che mi ostino a non voler credere siano parte della mia stessa specie.
Quella (dis)umana.

“Tanto tempo fa, nel regno sotterraneo, dove la bugia, il dolore, non hanno significato, viveva una principessa che sognava il mondo degli umani. Sognava il cielo azzurro, la brezza lieve e la lucentezza del sole. Un giorno, traendo in inganno i suoi guardiani, fuggì. Ma appena fuori, i raggi del sole la accecarono, cancellando così la sua memoria. La principessa dimenticò chi fosse e da dove provenisse. Il suo corpo patì il freddo, la malattia, il dolore, e dopo qualche anno morì. Nonostante tutto, il Re fu certo che l’anima della principessa avrebbe, un giorno, fatto ritorno, magari in un altro corpo, in un altro luogo, in un altro tempo. L’avrebbe aspettata, fino al suo ultimo respiro. Fino a che il mondo non avesse smesso di girare.”

Il Labirinto del Fauno 

Il Labirinto del Fauno – film di Guillermo del Toro (2006)

L’IMPERO DEL BUIO.

standard 23 maggio 2014 28 responses
Ci sono dei momenti in cui non ti bastano i sogni e le poesie, non ti bastano i sorrisi e l’ottimismo, le carezze, le corse, le storie felici.
In questi momenti vorrei scrivere una storia nera.
Dalle pareti oscure e i risvolti tristi.
Che si pieghi come la bocca con gli angoli in giù, una storia flessibile e passionale, senza lieto fine, che si illumini solo di luna calante.
La storia di un’insufficienza di sguardi, di sensazioni, di battiti. Di mancanza e di stordimento, di confusione e sospiri, di ansia avida e affamata, di coperte sbattute dalla finestra, per far volare la polvere.
Riavvolgo il nastro ma la storia è sempre la solita.
Cambio prospettiva, voce narrante, sguardo e angolazione. La linea nera mi stringe le caviglie e mi trascina nel suo vortice.

L’impero della luce – René Magritte


Faccio foto ai miei pensieri ma vedo solo buio.
E al buio è difficile prendere una strada piuttosto che un’altra e allora…temporeggio. Aspetto. Aspetto che passi questo nulla che sta inghiottendo tante sicurezze e cerco di starmene ferma, seduta e accoccolata, per non perdere almeno me stessa. In questa attesa rimetto in discussione tante cose, senza darmi tregua.
Magari nel mentre che perdo la fiducia in tutto la ritrovo in me stessa.
Magari.

Capita. Dice che alle persone come me, ingenue, illuse, sognatrici, dice che capita. Capita che ad un certo punto ti risvegli e quello che vedi non ti piace e non dipende in alcun modo da te.
Capire di non potersi fidare di quello che si ha intorno è forse una delle più brutte esperienze che mi siano mai accadute, nella mia intensa vita da babbea. Perché un po’ mi ci sento, si, stupida. E puntualmente ci ricasco. 
Mamma mi aveva insegnato ad essere spontanea, a credere negli altri, a vedere il buono. non so se si può insegnare ad essere ingenui, ma lei lo aveva fatto. Zero malignità quindi zero conseguenze negative. Invece non è così, mamma. Le persone sono negative. Cattive. Maligne. A volte non lo sanno nemmeno loro di esserlo, però alla fine io subisco. Non come vittima, ma come fantoccio inconsapevole. 
E quindi niente. Ecco che capita che ti risvegli in un mondo che non riconosci e non ti piace affatto.
Allora me ne sto zitta e guardinga, per imparare a conoscere questi nuovi limiti appena scoperti, questa libertà finta che abbiamo di comunicare i nostri pensieri, che poi verranno in qualche modo rielaborati e rivisti, con lunghi strascichi di rancore e cose non dette. 
Io non sarò mai così. Ma ho smesso di essere quella bambina con il dito appoggiato sulla bocca, pronta ad indicare il fiore più colorato.
Non voglio conferme, non voglio compassione, non voglio finti spasimanti.

Vorrei solo evitare pungermi con spine invisibili.

LA LINEA BIANCA#4

standard 28 novembre 2013 16 responses

Con una mano appoggiata sul tuo petto e l’altra sotto il mio fianco, ascolto il tuo respiro.

Per quanto possa essere cosa banale, ogni volta mi stupisco di come sia perfetta la forma delle mie dita proprio lì, in quella posizione. Mi immagino di disegnarla con un gessetto, lasciando il mio segno su di te, facendo in modo che sia indelebile al tempo e ai giorni, che a volte scorrono via senza lasciarti il tempo di sbattere le ciglia.
A volte camminiamo e non lasciamo tracce. E il nostro seguito pesante si dissolve. La dispensa piena di barattoli, ordinati, colorati, ognuno con il loro fiocchetto di raso, con le punte un po’ sfilate, conserva sottovuoto i sorrisi e le anime che vestiamo ogni giorno.
Stamani ho aperto il barattolo giallo. C’era anche un gessetto, per disegnare la mia mano sul tuo petto, l’ho lasciato sul comodino.
Voglio ritrovare il suo tratto stasera, quando i miei capelli ti faranno il solletico e il segno polveroso colorerà la tua pelle.
Intanto vestita di giallo, con un fiore tra le mani io varco la soglia di casa, lasciando che la mia scia mi segua, senza dissolversi davvero, perché voglio ritrovare la strada percorsa.

Oggi è un giorno giallo.
Il cielo è giallo.
L’aria non è trasparente ma colorata di giallo

Io respiro sabbia del deserto 
mentre piove camomilla 
dalle nuvole che filtrano il colore del sole.

Tutto è giallo.

Ma io esco lo stesso, in questo strano giorno, perché mi piace vedere ciò che accadrà, minuto dopo minuto, anche se non avrò il tempo di vedere cadere i petali della gerbera che stringo tra le mani.
Me la porto al naso, ogni passo, per coglierne le sfumature, cambiano come cambia la mia prospettiva di osservazione del mondo: anche se avanzo di poco, anche se le mie gambe sono corte, trovo sempre cose nuove da osservare, in questo giorno colorato.
Volano piccoli pollini gialli.

Non è solo pioggia, sono pois di primavera che cadono.

Banksy ?
***
Ci sono delle parole che vorrei dipingere, ma non ne sono capace. E allora cerco immagini in giro per il web, che descrivano quello che voglio dire, ma non sempre ne sono soddisfatta. Banksy è un artista che sa comunicare in un modo incredibile, ma in questo caso avrei voluto un quadro fatto per me. 
Con l’aria rarefatta, piena di pollini e di un giallo diffuso, senza troppi contrasti. 
Un quadro che parlasse di ciò che ho scritto. Dell’aria colorata ma tenue e delicata, che carezza le gote delle persone che passeggiano e che la attraversano.
Un disegno a matita e carboncino, su carta ruvida.
Stasera colorerò il mio disegno con la musica del mio amore. Suonano in un posto vicino Firenze, sono già lì con gli occhi a ? ? che lo guardo suonare.
Domenica invece sarò a colorare insieme a Camilla. Wor(l)ds diventerà una realtà, sarò tanto felice di farne parte. In 10 puntate del suo progetto è stata capace di creare un insieme sinergico di razionalità e tentazioni che non ho mai visto prima. Coinvolgimento e passione, dettagli e grammatica. 
People have the Power, canta Patti. Che sia nelle nostre Parole, questo potere.
Vi bacio. Sono felice.

LA LINEA NERA.

standard 13 settembre 2013 23 responses
Il colore della tisana legnosa e poco profumata dipinge l’acqua fumante. 
E’ una sera che lascia orme umide dietro di se, sono piccoli pois bagnati sul tavolo di marmo. 
E’ una sera che non posso lasciar scorrere così. Ci sono parole che possono aspettare, altre che ti escono fuori dalle dita, solcando la tastiera e gli spazi liberi del mio cervello. 
Sono una senza dio, non conosco nessuna religione. Non perchè un dio mi renderebbe migliori questi momenti, ma perchè, chi ci crede, trova giustificazioni che io non riesco a darmi.
Quindi cadono petali, lacrime, entusiasmo.
E ti trovi dietro una linea nera che non hai mai deciso di oltrepassare. Le esigenze diventano dimenticati frammenti. Le priorità si fanno da parte e non c’è altro che un gran silenzio. Un buco nero come un vortice inghiotte tutte le parole, risucchia anche i sorrisi.
Rimango io, dietro la linea nera.
Non è una sfida, vince sempre lei. 
Imprevedibile, senza alcuna vergogna o rispetto.
Si insinua, fredda, tra un respiro e un sospiro, ti strozza, sa bene dove colpire.
Non uso preghiere nè armi.
Quello che posso imparare, dopo questa ennesima, brutale, linea nera, è che non possiamo perdere nemmeno un frammento della nostra esistenza. 
Non ci rimane che vivere, con le nostre mani modellare un domani comunque sconosciuto.
Passione, Amore, Desideri. 
Le domande senza risposta lasciano il loro eco infinito nella tazza vuota.

LA LINEA BIANCA#3

standard 2 agosto 2013 17 responses

Ho un orologio automatico, uno di quelli che non hanno bisogno di pila. Si ricarica sentendo il movimento del braccio. 
Crescendo ti accorgi di quanto lo scorrere del tempo diventi importante dopo una certa età. Fino a quando sei giovane, che poi è una definizione del tutto soggettiva, non ci fai nemmeno caso, anzi, ogni mezzanotte è un traguardo sul quale scrivere fitte righe di diario. 
Per me ogni mezzanotte è un mostro.
Ha le sembianze dispettose di un satiro.
Ha la sagoma dei mostri di Notre Dame.
Corna, denti aguzzi, ali appuntite, uncini affilati. Stanno lì, appollaiati sulla lucente linea bianca, che appare anche nel buio più denso delle mie notti.
Vedo il loro profilo e mi trasformo.
Per colpa di questi incubi ho desiderato che le notti passassero, che le mezzanotti non arrivassero mai, se non quando ero già nei sogni più profondi, per non costringermi a descriverne le sembianze, sul mio diario.
Chimere. Chimere di fiati persi alle fermate del bus, in attesa del prossimo passaggio che mi allontanasse dal mondo che detestavo, per poter chiudere il mio aspetto ingombrante e goffo dentro una mansarda, insieme ai miei pensieri, costretti in queste mani sempre troppo a lungo, che altra via d’uscita non trovano.

« …Era il mostro di origine divina,
leone la testa, il petto capra, e drago
la coda; e dalla bocca orrende vampe
vomitava di foco: e nondimeno,
col favor degli Dei, l’eroe la spense… »
 

Chimere. 
Sospetti bifolchi e pietrificati sgorbi. 
Vi osservo da questo mio giorno infinito, che non conosce più la notte. 

Mi sono trasferita al nord, nei sei mesi di giorno, in cui il tramonto è solo l’attimo prima di un’alba colorata e fredda. Ho portato con me l’orologio automatico, mi muovo per farlo caricare, come se questo gelo potesse inchiodarmi le braccia ed escludere il flusso del tempo dalla mia vita. 
Aspetto che passi il tempo, nella modesta soglia in cui mi sono ordinata di stare, non esiste più la linea bianca abitata nella notte dalle sagome rilucenti odio.
Perché non porto più con me il desiderio di sconfiggere chi si limita ad osservarmi, da lontano. Ho la presunzione di sentirmi così chiara, piena di luce, che nessun ombra deforme può sopprimere il mio sorriso. 

E il ticchettio del mio orologio.

Notre Dame (Parigi) – Chimere

LA LINEA BIANCA#2

standard 24 luglio 2013 43 responses

Non avevo ancora 18 anni quando ho spento la mia ultima sigaretta. L’ho spenta e pensavo di essere innamorata. Lui era magro, alto, cinque anni più grande. Un carattere spento ma attento. 
Era agosto. E ancora non capivo cosa volesse dire vero amore, ma in quel momento non sapevo di non sapere…non sapevo che lo avrei scoperto molti anni più tardi, sotto un altro cielo, con una luna così stretta da sembrare una virgola bianca.  
Se ci penso adesso, che ho fumato, mi sembra di parlare di un’altra persona, un’altra vita. 
Non so perchè stamattina, quando, nonostante la fretta, piegavo il mio pigiama, ho pensato a quell’ultima sigaretta, alla sensazione che stai per fare una cosa per l’ultima volta. Ora non ricordo se ne ero consapevole, non sono brava con le memorie storiche della mia adolescenza, nemmeno quella più recente.  
L’ultima sigaretta, un significato come fosse un confine, una linea bianca
E quell’amore mai sbocciato?  
E quegli istinti? Sono sempre stata troppo razionale, e questo è il risultato.  
Una mente che produce pensieri come fosse una catena di montaggio, una continuità spaventosa, un intero processo mai finito, senza prodotti da vendere, solo risultati da analizzare.  
Una linea di demarcazione, bianca. Bianca come quell’amore mai consumato, troppo giovane, troppo inconsapevole, incastrato tra le lamiere di una faticosa e farraginosa realtà.  
Ho piegato il pigiama, mi sono lavata i denti dai sapori della notte, ho scelto con quale forma mostrarmi oggi, ennesima decisione di apparire piuttosto che correggere veramente. E sono uscita. È da quel presunto amore che non mi do pace, è da quel momento che ho capito di non capire.  
È da quella sigaretta che ho messo un confine alla mia vita, lasciando che fosse solo di ragione e mai di cuore. 
Il mio profilo contrasta con il sole della mattina, è l’unico riflesso che credo di conoscere veramente, l’unica presenza che posso accettare. Ho scelto una vita di solitudine, ho desiderato di non avere coraggio, lo desidero ancora. 
Non voglio tirare su quella sigaretta dal pavimento, cancellare il confine, eliminare la linea bianca. Quello è il mio punto di non ritorno, il mio rifugio, la mia certezza, il mirino da puntare anche da lontano, quando mi sento persa. 
Mi avvolgo nel bozzolo, pieno di linee bianche, mi appendo al soffitto, come fossi una larva in attesa di trasformazione, mi dondolo mentre sono lì, al riparo.  
Non voglio mai imparare a volare.  
Lasciatemi sola.

Alberto Martini – Donna Farfalla Civetta (1907)
LA LINEA BIANCA è la mia prima “raccolta” di racconti. Per ora solo virtuale, chissà che un giorno, forse, qualche disgraziato passi di qui e rimanga colpito dalle mie scempiaggini…intanto siete voi le mie cavie preferite, gli unici lettori “eletti” per queste prime time così esclusive. 
Grazie per esserci!

LA LINEA BIANCA

standard 15 luglio 2013 83 responses

Ogni mattina cammino lungo una linea bianca, sul marciapiede. C’è lei, io e poi mio babbo. Lui mi porta a scuola, che poi sarebbe l’asilo, ma a me piace tanto chiamarla scuola. Ho anche imparato a scriverla, quella parola, da quanto mi piace.

Mio babbo è basso, con una barba scura, giovane e tanto buono. Io lo faccio correre dietro di me, giochiamo a chiapparello ogni volta, su quel marciapiede grande.

Ci sono un sacco di rami che prendo al volo, mentre corro quasi ad occhi chiusi, strappo le foglie in piccoli frammenti, alcuni si nascondono tra le mie mani e li conservo, nelle tasche del gilet. Una volta a scuola le ricalco con la matita sul foglio, voglio ricordarmi della corsa fatta con papà.

A volte quando corro sento il sapore del latte, oppure dei biscotti al miele. Sento lo zainetto pieno di macchinine che si agita dietro la mia schiena, il rumore delle biciclette che arrivano alle mie spalle e sfrecciano oltre la linea bianca, quel confine che devo tenere bene a mente di non sorpassare, mai. Babbo mi rammenta sempre, prima di uscire di casa, che ci sono delle cose che posso fare anche se sono piccolo, mentre per altre è necessario aspettare. Come andare in bicicletta senza le ruotine…quanto mi piacerebbe…ma è ancora presto. Come mangiare i biscotti caldi, appena sfornati dalla nonna: ditemi come si fa ad aspettare, senza bruciarsi la punta della lingua, i polpastrelli e farsi appannare gli occhiali dal calore del primo morso, con il vapore che mi investe la faccia. Il calore della fragranza. Che buono. Come andare con i miei amici in campeggio o capire come funziona che ci si innamora, ad un certo punto, di una bambina.

Ma se il babbo dice di aspettare io aspetto. 
Mi dice anche che la pazienza è un grande pregio, che mi servirà nella vita. Ma la mattina quando mi viene voglia di correre, mentre papà si stropiccia gli occhi per il sonno…non ce la faccio a trattenermi, corro! In fondo sono un bambino, anche se sono capace a scrivere scuola non vuol dire che sono grande. Perché quella linea che non devo sorpassare, mentre batto i miei piedi sull’asfalto e strappo le foglie con le mani, è un limite che non conosco. Mi attira come una calamita, ma ho anche paura di lei…meglio starne alla larga, così mio babbo, con il tempo, mi insegnerà come camminare da solo anche dall’altra parte del mondo, magari tra le foreste dell’Amazzonia, con quegli alberi così alti che il parco della mia scuola in confronto sembrerà un giardinetto.

Insomma, tutti i giorni faccio la solita strada ma non mi annoio. Imparo tante cose e ricordo tante cose che posso raccontare alla mamma, quando torno a casa il pomeriggio. Ci sono certe volte poi che sono così felice, conservo le piccole foglie strappate fino a quando non torno a casa, per farci una collana. 
Quando sarò grande non voglio dimenticarmi la spensieratezza di questi bei giorni, quando correrò non per divertirmi ma solo per la fretta, allora vorrò toccare questa ghirlanda che ormai sarà secca e fragile e sorridere con i denti grandi e, anche dovesse cadere qualche angolino, io saprò la storia di ogni pezzetto, raccolto lungo la linea di confine, tra la realtà e la fantasia, tra il gioco e il dovere, tra la continuità dell’amore e la frammentarietà della vita. 

E quindi sorriderò, come faccio ora, che ne disegno la sagoma e sento ancora l’odore di clorofilla.
Gustav Klimt – Le tre età della donna (1905)