UNA CIAMBELLA PER GALLEGGIARE.

standard 26 febbraio 2014 66 responses
Sono finite le carezze.
I sogni, le speranze.
Sono finiti gli sguardi suadenti.
Le mani intrecciate, gli abbracci.
E’ finito il tempo dei sorrisi, della gentilezza, della disponibilità.
E’ finito.
Tutto.

Ecco…a volte, immagino un mondo così.
Dove il dubbio governa anche la più limpida e pura delle acque.
Dove la rabbia scuote anche i rami più verdi.
Dove l’aggressività e l’invidia intrappolano i cuori e annebbiano anche la vista più sicura.
Ma forse questo non è il mondo che immagino, è quello reale.
Non si può fare un passo senza sentirsi giudicati.
Un Grande Fratello perenne che ti osserva. Movimenti, espressioni, sentimenti, tutto schedato.
Decisioni illuminate con un occhio di bue, non si accettano rimpianti, scuse o baratto.
Una vita senza vita, dove anche chi ti vuole un bene sincero è sempre pronto a sguainare la spada per difendere se stesso contro immaginari nemici, a cercare sintesi di malignità dove non si nasconde altro che qualche parola ingenua e priva di sotterfugi.
In questo mondo a volte mi sento aliena
Perché, pur sforzandomi, non riesco a guardare oltre le parole che mi vengono dette. Non mi immagino dietrologie o cattiverie, non costruisco battaglie inventate, non faccio castelli di sberleffi e malignità.
Posso rimanere imbambolata ad osservare la rugiada su una foglia, pensando alla magia della natura, e intanto scrivere nella mia mente parole che viaggiano insieme a delle infinite montagne russe, capovolgendo il corso del tempo.
Posso guardare in fondo agli occhi di chi ho davanti e immaginarmi mondi lievi, in cui la felicità si sorseggia la mattina insieme al latte, mescolando palpebre che sbattono e simpatici cereali che galleggiano.
Non so vivere diversamente, altrimenti mi sentirei soffocare. Questo a volte mi fa camminare da sola, perché in tanti modi questo mondo terribile si è insinuato nelle anime, anche delle persone più insospettabili. Mentre cammino i miei piedi misurano ogni passo e cercano contatto con il terreno, per avere un riferimento, per ricordarsi l’origine di tutto, per trovare un compagno fedele a cui affidarsi, se c’è.

Essere aliena a volte mi ha fatto sentire esclusa. 
Passato prossimo, remoto, recente, presente.
Ma il tempo che passa non è solo un nemico, è anche esperienza. E’ chiudere gli occhi e accumulare consapevolezza da quel piccolo momento di buio. Ho imparato a farmelo amico, il tempo che di solito combattevo, a sollecitare la sua collaborazione nelle situazioni in cui mi disperavo.
E il tempo mi ha insegnato che essere aliena non è per forza un difetto. Anche se continuerò a struggermi, a pentirmi, a sentirmi in colpa per colpe non mie, a sentirmi l’imbarazzo scivolarmi sulla schiena e sulla fronte sotto forma di piccole perle di sudore, cercherò di correggere questa sensazione di soffocamento che mi assale, quando la parte oscura di questo mondo, intriso di ipocrisia e poca vergogna, mi osserva e mi spinge verso il basso.

Ma io ho la ciambella.
Galleggio.

Erik Johansson

QUESTA STRANA DOMENICA.

standard 16 febbraio 2014 60 responses
I rumori della domenica.
Un passeggino veloce sulla strada che passa vicino al mio cancello.
L’abbaio di un cane, forse al profumo della primavera nell’aria. 
I sorrisi rilassati e stanchi, il sole che da qualche parte fa capolino.
Tutto giunge distratto e fugace dal proprio mondo assorto.
Questa strana domenica grigio vestaglia.
Dagli occhi satolli di lasagne condite, dall’eyeliner troppo marcato e i tacchi scomodi.
Questa strana domenica chiusa tra le pareti del mio giardino.
Sento strisciare tutti gli insetti tra i germogli dei fiori. Sento le zampette delle coccinelle e le ali trasparenti delle mosche.

I rumori della domenica.
Diventano suoni se qualcuno prende in mano una chitarra e si chiude con me nel giardino.
Abbiamo solo il quadrato del cielo a farci da guardiano, tutto il resto è comandato dalle tue corde.
Le corde della chitarra appena accordata, le corde della mia domenica lenta e frammentata.
Una domenica sulla corda.
Dove anche camminare è rischioso.

I rumori della domenica.
Dopo quasi un’intera settimana in prigione, ad alte temperature (febbrili). Quasi da delirio.
In questa settimana mi sono innamorata di nuovo – sempre del mio Amore -, maledetta febbre. 
Tutta colpa di San Valentino…

Innamorarsi di nuovo.
Degli stessi occhi, dei suoi occhi, nei quali ho la fortuna di riflettermi ogni giorno.

VOCE DEL VERBO SCRIVERE.

standard 7 febbraio 2014 28 responses
Io bloggo.
Tu blogg(h)i.
Egli blogga.

Coniughiamo insieme il verbo bloggare.

Bloggare o non bloggare, questo è il problema.
Il mio dubbio amletico del venerdì.
Qualcuno ha del vinavil, la pritt, un fissante, dei chiodi, un nastro morbido di raso? Esiste una formula segreta per incamerare tutte le belle paroline che ogni tanto fanno capolino nella mia testa? Se esistesse potrei anche tollerare i numeri, per una volta. Mi adeguerei alle necessità di calcolo, farei equazioni di punti e virgola e vocaboli strampalati, aggiungerei radici quadrate di emozioni e iperboli di pensieri.
Invece non posso.
Non sono dotata di lazo acchiappa-parole.
Le vedo sghignazzare, quando se ne vanno. 
Di solito capita in mezzo al traffico del mattino, in quei pochi minuti che servono per arrivare in ufficio. Una volta mi sono registrata…quando mi sono ascoltata mi sono sentita così deficiente che non l’ho più fatto. 
Allora mi dico che torneranno.
Magari sotto forme diverse, che non so riconoscere. Quasi mi ci arrabbio se non tornano nel modo che dico io.
Maledette parole, difficili parole. 
Sono sempre alla vostra ricerca, forse più di quanto ricerco il tempo.
Se trovo loro, non ho più bisogno di correre dietro alle lancette. E’ come se improvvisamente riuscissi a riequilibrare tutto.
Se le trovo mi ci sdraio dentro e le guardo dal basso.
Ci sprofondo.
E’ un amore corrisposto, il nostro.
Le accarezzo e le colgo, fiera. Le soppeso e le scelgo. Perché quando ci sono posso anche permettermi di scegliere, di aspettare, di misurare.
Quando non sono così ispirata le gratto via da ogni cosa che leggo, citazioni, scritte sui muri, titoli di giornale. Me le invento, non sono più originale, quasi mi disprezzo. Mi mangio le unghie, mi sistemo il ciuffo ripetitivamente.
Ma, appunto, non c’è nessuna formula che funzioni. Tutto rimane statico. I punti esclamativi dimenticati nello scatolone, insieme alle punteggiature immaginarie che affollano il mio cielo.
Una Via Lattea intera di pianeti fluttuanti di parole inespresse. Le mie mani sono i veri buchi neri che assorbono ciò che passa attraverso, non riescono a scrivere, si inceppano.

Edward Hopper – Automat (1927)

In realtà sono dipinta in un quadro di Hopper.

Senza parole, in una notte sconosciuta, avvolta da una solitaria luce artificiale, dentro un buco nero.

Ps: appena pubblicherò il post, le parole arriveranno tipo valanga. Lo so. Ma è venerdì, tra qualche ora sarò a casa e poi a fare la groupie per il mio chitarrista preferito.
Quelle che non scrivo oggi, saranno pronte per domani.
?

LE AMBIZIONI (PERDUTE).

standard 3 febbraio 2014 27 responses
Quando le giornate sono pesanti ti auguri solo di tornare a casa.
E che la serata sia lieve.

Vivere a pieno in questo mondo vuol dire che ne senti tante. Che ti accorgi di come si vada avanti per espedienti, conoscenze, debolezze altrui, simpatie. Di come chi ti sta davanti sappia argomentare anche la più assurda delle ipotesi, facendoti quasi credere che sia possibile, ma dentro di te scuoti la testa. Non puoi farlo davvero perché chi ti sta davanti ha il vantaggio di molte cose rispetto a te, ma non di tutte, per fortuna.
Chissà, magari un giorno non sarò più capace di trattenere l’amarezza e l’impazienza di dire ciò che penso sarà più forte di tutto, non dovrò più trattenere il respiro, non dovrò provare la brutta sensazione di sentirmi fortunata a tutti i costi solo perchè ho un lavoro.
Le giornate, le settimane, scorrono così, per la maggior parte. In attesa. Che arrivi il fine settimana, che il telefono squilli poco, che le dita siano ispirate a scorrere così sulla tastiera, che i baci siano sempre come li vuoi e che ogni sguardo ti accarezzi come fosse una nota dolce della musica che ami ascoltare.
In attesa che tutto quello che hai studiato svanisca, o che serva a qualcosa, a qualcuno, almeno a me. 
In attesa di essere capace di ricordare ciò per cui mi sono impegnata e battuta, ciò che ho amato fare e ora metto quotidianamente da parte per produrre ciò che serve a pagare l’affitto, le bollette, qualche vizio speso in un negozietto della mia via.
Questi sono i giorni dell’amarezza. Della prospettiva che non ti corrisponde ma che da qualche parte cela questo lato di te, così negativo e VERO da farti paura.

Sylvia Plachy – Pink Veil (1979)
Poi la prospettiva si muta.
Il  pensiero sorvola.
Come un piccolo e frivolo uccellino sorpasso questi vortici.
Ogni nebbia si disfa nell’aria fresca e dolce del mattino, del cielo terso, di queste folli altitudini nelle quali riesco a volare, senza fiato, senza tempo, senza fretta, senza conoscere destinazioni.
Ad occhi chiusi non vedo altro che le mie palpebre come specchi.
Vedo me, capelli lisci e strani colori.
Le poesie che creo nella mia mente si posano e non lasciano spazio ad altre parole.
Sono loro, quelle giuste, le vedo.
Ma stasera non so scriverle, le vedo e basta.
Anche loro in attesa.
Anche loro alla fermata del loro turno. 
Quello che passerà e le lascerà qui, di nuovo, oppure le renderà vuote e senza alcun senso, soffiandole via di nuovo, inafferrabili, lontano.