Yin e Yang.

standard 5 settembre 2013 35 responses
In questi giorni non so mai da dove cominciare. 
Sarà che è Settembre, il mese degli inizi, e io come al solito vado contro corrente.
Ho voglia di scrivere di come lavo i piatti.
Di come mi sono sporcata le mani di blu inchiostro.
Di quanto è bello il minuscolo gattino rosso che ho da due giorni per casa.
Di come vorrei fare una passeggiata tra i campi, tra le mani un grappolo d’uva dolce.
Del vento fresco delle cinque di mattina.
Del peso del lenzuolo sulle mie gambe scoperte.
Di quell’ombra che mi segue, che io seguo, ogni giorno.
Voglio dettagliare tutte le cose che ho visto in viaggio.
Il vento forte di Tarifa che arrivava dal Mediterraneo, lanciando sulle nostre gambe la piccola sabbia dorata.
La condensa sulla caña di birra, il sapore dei montaditos e delle olive.
Le polemiche e i manifestanti alla dogana, in uscita da Gibilterra, le sue scimmie antipatiche, la discesa sotto il sole cocente.
Le curve infinite per arrivare a Ronda e la sosta al distributore disperso nella Sierra de las Nieves, dopo aver salutato il mare e abbracciato la M4ry a Malaga.
La profondità di campo, di vita, di appartenenza osservando l’Alhambra al tramonto.
Tutte le gocce di sudore per ogni passo a Siviglia, che fossero le cinque di mattina o mezzogiorno.
I castelli, le fortezze, i giardini, le salite, i nomi delle calle.
Le volte in cui abbiamo sbagliato strada, girando in tondo alle rotonde o perchè appena avanti, girare a sinistra e magari a sinistra non c’era nessuna strada. 
Le sfilate assurde di modelli assurdi (e nudi) a Ibiza, il viaggio in aereo dove ci sentivamo degli attempati vacanzieri in un mondo di teenager, costantemente richiamati dalle hostess.
La città di cui mi sono innamorata, Cordoba, non so nemmeno spiegare il perchè, forse anche per il sapore del fico che mi sono comprata al mercato della frutta.
E’ settembre quindi, l’inizio e la fine. E’ un cerchio, con due semicerchi di colore diverso, se ne distinguono i tratti. E’ qui che si spengono i colori e si radicano i progetti, anche se a lungo termine. 
Yin e Yang.

E ciò che mi lascia sospesa è questa perenne alternanza, ma è anche ciò che mi lascia in vita. L’alternarsi delle stagioni, delle emozioni, delle notti che passano diventando sole. 
L’evoluzione di ogni cosa, l’attesa e la corrispondenza, la speranza, la costanza.
Faccio entrare la notte, in questo settembre celeste chiaro. 
Nel buio, a tentoni, per fare ordine. 
Tutto torna.

La lunette d’approche – R. Magritte (1963)

Le mille e una vacanza…

standard 27 agosto 2013 84 responses
“Ciao. 
Mi chiamo Berenice e non vado in vacanza da una settimana.
Cerco di resistere, ma le tentazioni di ripartire sono tante.”

Se esistesse un centro di riabilitazione ci andrei, credo sarebbe affollato. 
Il problema sorge quando ti accorgi che una vacanza è veramente finita.
Io di solito me ne accorgo quando mi tolgo lo smalto, messo con tanta cura prima di partire.
Se deve durare un paio di settimane già il primo giorno si sbecca, garantito.
E allora sei lì che ti cancelli un piccolo pezzettino di ricordi dalle unghie e i piedi ti raccontano di tutti gli asfalti calpestati. 
Pavimenti e piastrelle decorati, maioliche roventi delle due del pomeriggio, sconosciuti marciapiedi, panchine che accolgono lamenti e fanno recuperare sorrisi.
E’ che non basta una vita per raccontare ciò che vediamo. Non bastano le pagine, l’inchiostro, il sapere, la conoscenza. Non bastano gli occhi per rammentare e registrare i passaggi, le andate, i ritorni.
Non basta saper descrivere.
Non basta fare una foto così come vedono gli occhi, come se fosse una prospettiva animata.
Non basta ricordare le sensazioni così forti come le ho vissute, i battiti, il modo in cui mi sfioravi le mani, le carezze del vento sulle guance arse dal sole d’agosto.
Dunque, non rimane altro che saper accogliere il dono di quello che si ha, di quello che si decide di essere, di fare, di vivere. Quello che ho è meraviglioso. Lo colgo e lo custodisco.
Sei tu quello che io desidero.
E’ questa la vita che ho scelto.
Sei quella unica prospettiva che voglio registrare, la vita che mi voglio godere.
Sei quel sorriso che mi merito ogni primo raggio di sole.
Respiro. E’ così caldo che quel sole che entra dalle narici e brucia tutto ciò che trova.
Ma il caldo non offusca l’essenza delle cose, la bellezza delle fiabe d’oriente, i protagonisti e quegli sguardi che nemmeno la migliore fotografia riesce a catturare. Il caldo mi confonde ma scioglie anche questa smania di ricordare e le ansie che mi accompagnano da sempre quando faccio e vivo qualcosa di bello. 
Con il caldo, come in tutte le situazioni estreme, rimane l’essenziale.
L’amore. Il mare. Le intese. L’oceano.
Una valigia a testa, una macchina e più di milletrecento chilometri indimenticabili.
Driiiiiiiiiin…la sveglia è suonata di nuovo…
FOTO FURBA nr1 – GIARDINO DEL GENERALIFE – ALHAMBRA – GRANADA
FOTO FURBA nr2 – ALHAMBRA – GRANADA
DAY & NIGHT – ALCAZAR – CORDOVA
FOTO FURBA nr3 – INGLESI PER UN GIORNO – GIBILTERRA
CONFINI (VENTOSI) – ISLA DE LAS PALOMAS – TARIFA

FOTO FURBA nr4 – OCEANICHE PROSPETTIVE – TARIFA

FOTO FURBE nr5 – SIAMO ARRIVATI…ALLA FRUTTA! – REAL ALCAZAR – SIVIGLIA
10KG IN 12GG – Ibiza, Denia, Alicante, Murcia, Granada, Cordoba, Malaga, Ronda, Gaucin, Casares, Gibilterra, Huerta Grande, Tarifa, El Puerto de Santa Maria, Cadice, Siviglia – LA ZINGARATA ANDALUSA!

Come se non ci fosse un domani.

standard 7 agosto 2013 17 responses
Ho un singhiozzo prepotente.
Sono quasi incosciente.
Stanca.
Misuro con le mani la distanza da qua a domani.
Ogni centimetro si allunga, per effetto del caldo.
Sono minuti molli, fatti di nuvole soffici.
Sono minuti morbidi, ci salto sopra come fossero materassi su un prato verde.

Oggi è quel giorno dove il domani si nasconde.

Dove ogni passo pesa come se alla caviglia avessi una catena.
Dove ogni sguardo pesa come se sulle ciglia avessi un piccolo bottone.
Dove ogni singlo movimento assume dei contorni grotteschi.
E quindi misuro.
Un oggi infinito lo baratto per un domani svelto, che mi accompagnerà dove tutto è giovane, soprattutto la notte.
Chiedo pazienza, a chi mi legge. 
Pazienza per la mia vaga attenzione, pazienza per le mie parole scariche.

Da un’estate all’altra mi è cambiata la vita. In meglio. Ed è tutto vero.
Io ti vedo, domani, anche se ti mimetizzi sull’asfalto rovente.
Non sei un miraggio. Sei qui.
Se sopravvivo alla zingarata andalusa ci rivediamo qui, più abbronzati, rilassati, forse anche più stanchi di prima. 
Mi è passato anche il singhiozzo.

Adios Amigos! Hasta Pronto!

 

Guardia Sanframondi – Centro storico

LA LINEA BIANCA#3

standard 2 agosto 2013 17 responses

Ho un orologio automatico, uno di quelli che non hanno bisogno di pila. Si ricarica sentendo il movimento del braccio. 
Crescendo ti accorgi di quanto lo scorrere del tempo diventi importante dopo una certa età. Fino a quando sei giovane, che poi è una definizione del tutto soggettiva, non ci fai nemmeno caso, anzi, ogni mezzanotte è un traguardo sul quale scrivere fitte righe di diario. 
Per me ogni mezzanotte è un mostro.
Ha le sembianze dispettose di un satiro.
Ha la sagoma dei mostri di Notre Dame.
Corna, denti aguzzi, ali appuntite, uncini affilati. Stanno lì, appollaiati sulla lucente linea bianca, che appare anche nel buio più denso delle mie notti.
Vedo il loro profilo e mi trasformo.
Per colpa di questi incubi ho desiderato che le notti passassero, che le mezzanotti non arrivassero mai, se non quando ero già nei sogni più profondi, per non costringermi a descriverne le sembianze, sul mio diario.
Chimere. Chimere di fiati persi alle fermate del bus, in attesa del prossimo passaggio che mi allontanasse dal mondo che detestavo, per poter chiudere il mio aspetto ingombrante e goffo dentro una mansarda, insieme ai miei pensieri, costretti in queste mani sempre troppo a lungo, che altra via d’uscita non trovano.

« …Era il mostro di origine divina,
leone la testa, il petto capra, e drago
la coda; e dalla bocca orrende vampe
vomitava di foco: e nondimeno,
col favor degli Dei, l’eroe la spense… »
 

Chimere. 
Sospetti bifolchi e pietrificati sgorbi. 
Vi osservo da questo mio giorno infinito, che non conosce più la notte. 

Mi sono trasferita al nord, nei sei mesi di giorno, in cui il tramonto è solo l’attimo prima di un’alba colorata e fredda. Ho portato con me l’orologio automatico, mi muovo per farlo caricare, come se questo gelo potesse inchiodarmi le braccia ed escludere il flusso del tempo dalla mia vita. 
Aspetto che passi il tempo, nella modesta soglia in cui mi sono ordinata di stare, non esiste più la linea bianca abitata nella notte dalle sagome rilucenti odio.
Perché non porto più con me il desiderio di sconfiggere chi si limita ad osservarmi, da lontano. Ho la presunzione di sentirmi così chiara, piena di luce, che nessun ombra deforme può sopprimere il mio sorriso. 

E il ticchettio del mio orologio.

Notre Dame (Parigi) – Chimere

Voce del verbo avere.

standard 30 luglio 2013 66 responses
Ho sentito i miei sandali battere sul selciato antico di queste strade.
Ho sentito la fatica delle ore calde, i vicoli bui e stretti, un ruscello segreto scorrere tra le mura del paese.
Ho visto occhi furbi distogliere lo sguardo al mio passaggio, cespugli d’erba selvatica nascere sulle tegole irregolari di molti tetti.
Ho sentito la tua mano che camminava con le dita sulla pelle umida della mia schiena.
Ho visto quello che volevo vedere.
Ho sentito di ingiuste vendette.
C’è da perdonare, da aspettare, da pazientare.
Un viaggio non basta per conoscere le proprie sfumature, ma serve per colorare un polpastrello e lasciare una traccia, indelebile.
Sono poco poetica solo perchè rischierei di essere troppo malinconico-romantica. E’ che mi sono sentita a casa…e non è una cosa così scontata, per una rompipalle come me. 
Sentirsi accolti è bello. Ed è anche RARO. 
Ho visto, ho sentito, ho avuto tutto quello di cui si può avere bisogno. 
Guardia Sanframondi – chiesa di San Rocco a pianta ottagonale
Guardia Sanframondi – centro storico
Guardia Sanframondi – una delle tante fontanelle del paese
Guardia Sanframondi – centro storico con bizzarre soluzioni architettoniche
Guardia Sanframondi – centro storico
Lui ed Io ?
 Ps: …per ora i suoi occhi azzurri sono solo miei. Non ve li posso concedere.

LA LINEA BIANCA#2

standard 24 luglio 2013 43 responses

Non avevo ancora 18 anni quando ho spento la mia ultima sigaretta. L’ho spenta e pensavo di essere innamorata. Lui era magro, alto, cinque anni più grande. Un carattere spento ma attento. 
Era agosto. E ancora non capivo cosa volesse dire vero amore, ma in quel momento non sapevo di non sapere…non sapevo che lo avrei scoperto molti anni più tardi, sotto un altro cielo, con una luna così stretta da sembrare una virgola bianca.  
Se ci penso adesso, che ho fumato, mi sembra di parlare di un’altra persona, un’altra vita. 
Non so perchè stamattina, quando, nonostante la fretta, piegavo il mio pigiama, ho pensato a quell’ultima sigaretta, alla sensazione che stai per fare una cosa per l’ultima volta. Ora non ricordo se ne ero consapevole, non sono brava con le memorie storiche della mia adolescenza, nemmeno quella più recente.  
L’ultima sigaretta, un significato come fosse un confine, una linea bianca
E quell’amore mai sbocciato?  
E quegli istinti? Sono sempre stata troppo razionale, e questo è il risultato.  
Una mente che produce pensieri come fosse una catena di montaggio, una continuità spaventosa, un intero processo mai finito, senza prodotti da vendere, solo risultati da analizzare.  
Una linea di demarcazione, bianca. Bianca come quell’amore mai consumato, troppo giovane, troppo inconsapevole, incastrato tra le lamiere di una faticosa e farraginosa realtà.  
Ho piegato il pigiama, mi sono lavata i denti dai sapori della notte, ho scelto con quale forma mostrarmi oggi, ennesima decisione di apparire piuttosto che correggere veramente. E sono uscita. È da quel presunto amore che non mi do pace, è da quel momento che ho capito di non capire.  
È da quella sigaretta che ho messo un confine alla mia vita, lasciando che fosse solo di ragione e mai di cuore. 
Il mio profilo contrasta con il sole della mattina, è l’unico riflesso che credo di conoscere veramente, l’unica presenza che posso accettare. Ho scelto una vita di solitudine, ho desiderato di non avere coraggio, lo desidero ancora. 
Non voglio tirare su quella sigaretta dal pavimento, cancellare il confine, eliminare la linea bianca. Quello è il mio punto di non ritorno, il mio rifugio, la mia certezza, il mirino da puntare anche da lontano, quando mi sento persa. 
Mi avvolgo nel bozzolo, pieno di linee bianche, mi appendo al soffitto, come fossi una larva in attesa di trasformazione, mi dondolo mentre sono lì, al riparo.  
Non voglio mai imparare a volare.  
Lasciatemi sola.

Alberto Martini – Donna Farfalla Civetta (1907)
LA LINEA BIANCA è la mia prima “raccolta” di racconti. Per ora solo virtuale, chissà che un giorno, forse, qualche disgraziato passi di qui e rimanga colpito dalle mie scempiaggini…intanto siete voi le mie cavie preferite, gli unici lettori “eletti” per queste prime time così esclusive. 
Grazie per esserci!

Blink. Come un battito di ciglia.

standard 19 luglio 2013 45 responses

Sono come un pesce fuori dall’acqua.

Annaspo. 
Un lato sulla battigia, vedo con un solo occhio. Lo giro e lo rigiro, camaleonticamente parlando, per guardarmi intorno, ma vedo cielo. Batto forte la coda, sento l’acqua vicina, ma non mi riprende con se.
È che sono un “pesce da weekend”. L’acqua il venerdì si avvicina di più, bagna la coda agitata, la seconda onda è ancora più forte, la battigia è solo un ricordo…le branchie riprendono un ritmo normale. 
Respiro. 
E se di solito sono un pesce in questo periodo sono diventata un fossile. È rimasta la mia sagoma su un sasso, qualche centinaia di estati fa, per risvegliarmi non serve nessun incantesimo, solo l’odore del sole. E del venerdì.
Recupero la mia forma, le mie squame lucenti, le pinne colorate e iridescenti, il guizzo e la vitalità. Il mio problema però non è il caldo, è il tempo, il tempo nel senso di ore disponibili per fare tutto quello che voglio. Il dono dell’ubiquità non è umano, ma a me basterebbe il teletrasporto.
Un blink e via, sono sotto l’ombrellone.
Un altro blink e via, sono in cucina a preparare la cena della domenica.
Quindi…annaspo. Respiro. Annaspo. Respiro.
Oggi respiro. Ma ho passato una settimana ad annaspare. A cercare di assaporare le cose belle che mi sono successe, senza per forza credere che svaniscano con un blink. Che poi io non sono pessimista…è che sono un po’ insicura.
E quando sono insicura cosa faccio? Mi fossilizzo. Mi chiudo. Doppio chiavistello, occhi persi nel vuoto. E mentre sono lì, sola, che vago nel torrione del castello, non mi rimane altro che rifugiarmi nelle certezze: forno acceso, frusta, ingredienti…e una penna per scrivere.

Mercoledì 17 luglio
Guardavo l’uovo e lo zucchero, nella ciotola, prima di fare il dolce.
L’arancione forte che si riempie di marroncino chiaro, color zucchero-di-canna.
I granelli che assorbono la liquidità.
Una questione di punti di vista, chi assorbe cosa, chi si impasta per primo, chi accetta la forma dell’altro.
Anche la mia vita è così, trasmessa a tratti su canali diversi dei quali non conosco il numero. Sobbalzo, in preda ai singhiozzi di un momento storto. Ci vuole così poco ad abituarsi alle belle forme, quelle che corrispondono, che non conoscono bolle d’aria, separazioni. Ci vuole così altrettanto poco per distaccarsi.
Aprire la scatola, in modo ordinato, togliere qualche pezzo. Richiudere. Smontare e rimontare, come con le costruzioni, come da bambini, quando tutto è possibile.
Si tratta di equilibri messi su basi paludose, in fondo io sono Maremmana, non può essere che così: acqua bassa, silenzio, piccole zanzare letali che lasciano cerchi concentrici impercettibili sulla pozzanghera, fili d’erba sporadici.
Quindi apro la scatola, il fiocco è bello ma il contenuto è povero, sono proprio io quella che vedo?
 
René Magritte – Falso specchio (1928)
Blink.
Per un attimo chiudo gli occhi. 
Sento il mare che mi rapisce di nuovo, posso respirare, guardare dove voglio, qualche paura nel taschino, che come un fiore perde i petali e svanisce.
Sento di non avere orizzonti ma solo possibilità.

LA LINEA BIANCA

standard 15 luglio 2013 83 responses

Ogni mattina cammino lungo una linea bianca, sul marciapiede. C’è lei, io e poi mio babbo. Lui mi porta a scuola, che poi sarebbe l’asilo, ma a me piace tanto chiamarla scuola. Ho anche imparato a scriverla, quella parola, da quanto mi piace.

Mio babbo è basso, con una barba scura, giovane e tanto buono. Io lo faccio correre dietro di me, giochiamo a chiapparello ogni volta, su quel marciapiede grande.

Ci sono un sacco di rami che prendo al volo, mentre corro quasi ad occhi chiusi, strappo le foglie in piccoli frammenti, alcuni si nascondono tra le mie mani e li conservo, nelle tasche del gilet. Una volta a scuola le ricalco con la matita sul foglio, voglio ricordarmi della corsa fatta con papà.

A volte quando corro sento il sapore del latte, oppure dei biscotti al miele. Sento lo zainetto pieno di macchinine che si agita dietro la mia schiena, il rumore delle biciclette che arrivano alle mie spalle e sfrecciano oltre la linea bianca, quel confine che devo tenere bene a mente di non sorpassare, mai. Babbo mi rammenta sempre, prima di uscire di casa, che ci sono delle cose che posso fare anche se sono piccolo, mentre per altre è necessario aspettare. Come andare in bicicletta senza le ruotine…quanto mi piacerebbe…ma è ancora presto. Come mangiare i biscotti caldi, appena sfornati dalla nonna: ditemi come si fa ad aspettare, senza bruciarsi la punta della lingua, i polpastrelli e farsi appannare gli occhiali dal calore del primo morso, con il vapore che mi investe la faccia. Il calore della fragranza. Che buono. Come andare con i miei amici in campeggio o capire come funziona che ci si innamora, ad un certo punto, di una bambina.

Ma se il babbo dice di aspettare io aspetto. 
Mi dice anche che la pazienza è un grande pregio, che mi servirà nella vita. Ma la mattina quando mi viene voglia di correre, mentre papà si stropiccia gli occhi per il sonno…non ce la faccio a trattenermi, corro! In fondo sono un bambino, anche se sono capace a scrivere scuola non vuol dire che sono grande. Perché quella linea che non devo sorpassare, mentre batto i miei piedi sull’asfalto e strappo le foglie con le mani, è un limite che non conosco. Mi attira come una calamita, ma ho anche paura di lei…meglio starne alla larga, così mio babbo, con il tempo, mi insegnerà come camminare da solo anche dall’altra parte del mondo, magari tra le foreste dell’Amazzonia, con quegli alberi così alti che il parco della mia scuola in confronto sembrerà un giardinetto.

Insomma, tutti i giorni faccio la solita strada ma non mi annoio. Imparo tante cose e ricordo tante cose che posso raccontare alla mamma, quando torno a casa il pomeriggio. Ci sono certe volte poi che sono così felice, conservo le piccole foglie strappate fino a quando non torno a casa, per farci una collana. 
Quando sarò grande non voglio dimenticarmi la spensieratezza di questi bei giorni, quando correrò non per divertirmi ma solo per la fretta, allora vorrò toccare questa ghirlanda che ormai sarà secca e fragile e sorridere con i denti grandi e, anche dovesse cadere qualche angolino, io saprò la storia di ogni pezzetto, raccolto lungo la linea di confine, tra la realtà e la fantasia, tra il gioco e il dovere, tra la continuità dell’amore e la frammentarietà della vita. 

E quindi sorriderò, come faccio ora, che ne disegno la sagoma e sento ancora l’odore di clorofilla.
Gustav Klimt – Le tre età della donna (1905)

Andalusia.

standard 9 luglio 2013 72 responses
Non ci sono foto da guardare, ma sfoglio le pagine lo stesso, in questa calda mattina di luglio. La guida sdrucita della mia vacanza. L’odore è quello della biblioteca, di mani, di persone, di passaggi.

“L’Andalusia è una terra sfuggente,
dove non si arriva mai veramente,
che va riconquistata ogni giorno.”

L’eco di queste parole si diverte a rimanere nella mia testa, come se ci fosse una cassa di risonanza grande, profonda e dalle pareti elastiche. Il suono ritorna vivo, io ne prendo le sembianze, metto ogni dito nel guanto e lo faccio calzare bene. 
Mi sento terra, aria calda, arsa dal vento e dal sole. Mi sento desertica e sola, contrastata e immobile. Mi sento ballerina, straniera, avventuriera.
Il peso dello zaino sulle spalle.
Mi sento sfuggente, come la terra che mi aspetta questo agosto.
Sono sfuggente quanto sono presente, in un equilibrio contrastato che forse nemmeno io conosco che talvolta mi inquieta, mi spenge i ricettori, mi zittisce.
E allora studio questa superficie così malridotta, questo ghiaccio pieno di venature, incrinato dagli errori e dalle ferite, lo livello con la mano. Ogni ramificazione può essere la letale spaccatura che mi fa affondare.
Quando sono Andalusa sono così sfuggente che non mi riconosco.
Passo veloce davanti allo specchio, senza lasciare alcuna traccia.
E una perpetua richiesta.

Conquistami.
Conquistami, ogni giorno.
Come se fossi uno dei Conquistadores.
Come se ci fosse da combattere per me.
Come se io fossi una terra sconosciuta, che esplori attento, sulla quale indaghi, della quale impari a fidarti, per la quale ti disperi o esulti.
Rendimi unica, col tuo sguardo.
Perchè voglio essere la tua erba viva non una steppa arida.
Perchè voglio rinfrescarti con la mia rugiada, donarti il mio tutto, spossarti, soddisfarti, riempirti.
Perchè voglio sconfiggere questo buco nero che ogni tanto mi avvolge.
Con i miei colori, con le tue armi.
Con i miei sorrisi, con il tuo amore.

Minas de Mazarron (Murcia) – Foto presa QUI
(lo so, lo so che non è in Andalusia, ma nel nostro itinerario “folle” dovrebbe essere di passaggio!)

Innamorarsi (a trent’anni).

standard 2 luglio 2013 63 responses
E’ che esci ed è sabato mattina. C’è il sole e non quell’aria che fa sembrare giugno un novembre tiepido. Cammini per la tua radiosa città, ricettori e occhi aperti, voglia di amore.
Tutto cambia sapore, non c’è storia, con l’amore.
Come se fai scorrere un ruscellino nel letto del Nilo. L’acqua scorre come un velo, adagio e senza veemenza, ma comunque arriva a destinazione.
Ci mette il suo tempo, ogni sassolino il salto necessario per oltrepassarlo, ogni movimento regolato in base alla forza a disposizione. E lo impari, perchè il letto al quale devi adagiare la tua schiena non è mai sufficientemente comodo, perchè l’impetuoso getto di acqua ha sempre riempito con abbondanza il letto del fiume, per quanto grande fosse stato, senza mai lasciare niente per te.
Passo dopo passo, un sabato mattina, lo senti, che lo hai imparato. A misurare.
E la cosa più bella di quando impari qualcosa è che puoi decidere quando usarlo. E a me misurare, soprattutto MISURARMI, non piace. 
Soppeso, pondero e considero. Scelgo, decido di DARE. Se trattengo, trattengo perchè le ferite devono ancora quietarsi, perchè i lividi assorbirsi, perchè la domanda è scarsa per quest’offerta così abbondante.
Con il righello in mano, con il goniometro, le squadrette e la bilancia cammino, per il lieve silenzio fiorentino, del sabato estivo mattuttino. Un duemilatredici scientificamente (ap)provato, un equilibrio che non lascia niente al caso. E’ che le misure si prendono quando si ha paura, quando lo spigolo pare troppo affilato per non ferirti e i sorrisi troppo finti per essere veri, come gli applausi comandati e le risate di sottofondo nei telefilm anni ’80. 
Ma sabato ho messo tutti questi centimetri e pensieri in borsa, ho continuato a camminare. 
Ho visto i sorrisi veri.
Gli abbracci desiderati.
Le emozioni che non si trattengono.
I fuochi spenti e riaccesi.
Le crestine e i riccioli ribelli, le zeppe comode e le gambe lunghe.
Le chiacchiere nascoste.
I panini e il vino su un marciapiede.

Ho visto che nel cuore ti ci rimane chi decidi tu, tra i tanti che passano.
E anche chi non rimane, comunque, ti lascia qualcosa, una carezza, un petalo, un profumo, una foto.
E anche chi non è presente…c’è comunque.

E’ che esci ed è sabato mattina. Decidi di DARE. 
Amare, a trentanni, senza ritorno.

credits to ZioPiero

credits to ZioPiero

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