I MIEI CINQUE MINUTI.

standard 1 novembre 2017 Leave a response

Questo post inizia così: “Oddio non ci posso credere! Ho veramente 5 minuti per scrivere? Davvero?”

In questo minuto che ho perso per soddisfare il mio stupore, ho aperto la bacheca di WordPress e ho iniziato a scrivere. Certo non avrei mai pensato che, dalla prima superiore quando ho imparato a scrivere a 10 dita, digitando rapida sulla tastiera del computer con Windows 3.1, con quello schermo nero e le lettere verdi lampeggianti, mi sarei trovata 21 anni dopo (OMMIODDIOOOOOOOOOOOOOOOOO 21 ANNI DOPO!!!!) a sfruttare ancora questa dote, cercando di destreggiarmi tra la cena, il pane che manca, le lacrime di una piccola lattante e un furbone di 2 anni e mezzo che mi azzannano il tempo.

Oggi è novembre. Il mio mese, anche se non mi rappresenta affatto. Sono più una tipa da primavera, da sole caldo, da mare, sudore, passeggiate ad ogni ora. Oggi è anche buio, parecchio buio. Non si smette mai di cercare la luce, quando si è genitori. La luce scalda, rincuora anche i momenti peggiori, rende visibile la polvere ma piacevole la vita. Una amica ogni tanto mi da lo spunto per scrivere, mi chiede “Berry puoi scrivere su questa cosa?”, quasi che le mie parole potessero soddisfare una mancanza nelle sue giornate. Beh, stavolta mi è proprio difficile. Stavolta scrivo “tanto per scrivere”, per dare voce perpetua ai bisogni di espressione che sento emergere dal mio corpo, bisogni fisiologici da sviscerare, in qualche modo.

E poi mi trovo qui, il cursore lampeggia, il tempo è scaduto. Il tempo è passato. Sarò qui di nuovo tra un po’? Il momento coinciderà con l’ispirazione? Oppure sarà l’ennesima sequenza di parole senza senso scritte su questo blog?

Chissà.

Agosto 2017 – Il Giardino dei Tarocchi, Capalbio

INIZIO.

standard 11 settembre 2017 2 responses

Oggi inizia la scuola. La mia.

Oggi inizio, di nuovo, ad essere me stessa. Con una figlia nella fascia che finalmente dorme e un figlio che balla i Foo Fighters intorno al tavolo di cucina, mangiando i crackers.

Le “vacanze” sono durante fin troppo per questo blog, per le mie dita sulla tastiera, che piano piano ritrovano la loro condizione di forma, la naturalezza nello scorrere da una lettera all’altra, senza staccarsi mai dal computer. Ho avuto da fare, lo ammetto. A lavoro, a casa, a cercare nuovi spazi (che non ci sono, almeno quelli fisici) e nuove dimensioni. Ho avuto da fare a riconoscermi, a prendere nuovamente confidenza con piccole misure dimenticate velocemente, a chiudere gli occhi a comando e riaprirli un secondo dopo, senza aver riposato.

Da questo oggi voglio troppo, ma in questo silenzio ho capito molto, soprattutto delle mie possibilità, delle priorità, di ciò che posso fare, fino a dove posso spingere l’acceleratore. Vado piano, a vista, guardando gli ostacoli senza sfida ma con accoglienza. Ho rivisto come in un film ancora in montaggio tutti i miei errori, le mie presunzioni, le lacune e gli spazi sconosciuti del mio inconscio, ci lavoro, taglio e cucio dove posso e dove non posso cerco di farci la pace, di perdonarmi, di andare incontro ad una nuova possibilità, se c’è.

Allora progetto. Non mi rimane che quello nei giorni troppo pieni per “fare”. Progetto nella mia testa per un secondo, per un’ora, mentre leggo la Pimpa e invece vorrei scrivere, mentre cucino e invece vorrei uscire, mentre pulisco culetti dalla pupù “santa” e invece vorrei dormire a stella sul letto.

Oggi inizio. E’ una giornata grigia fuori, ma dentro sento il tumulto, quello che non sentivo da tanto, quello che mi mancava così tanto. Quello che mi fa rincorrere i tasti mentre scrivo per la paura di non farcela a scrivere tutto ciò che voglio.

I’m looking to the sky to save me
Looking for a sign of life
Looking for something to help me burn out bright
I’m looking for a complication
Looking cause I’m tired of lying
Make my way back home when I learn to fly

Foo Fighters – Learn to fly

Vicolo di Napoli, Agosto 2017

A VOLTE VA COSì.

standard 13 febbraio 2017 6 responses

Ora basta. Oggi scrivo.

Questo ho pensato stanotte (ma si parla ormai di due settimane fa…), nel buio della camera, mentre mi giravo e rigiravo cercando il sonno perso. Quello che poi arriva tutto insieme la mattina, quando suona la sveglia e non vuoi aprire gli occhi, per nessuna ragione al mondo. L’ho pensato stanotte senza alcuna ispirazione, sapendo che il tempo è sempre meno e tutto da rosicchiare in qua e là durante la giornata, conoscendo lo svolgimento ripetitivo e pieno zeppo delle mie ore quotidiane che si susseguono senza sosta. Come quelle di tutti, più o meno.

Oggi scrivo e non so nemmeno io cosa.

Potrei parlare del mio lungo silenzio, tempestato di vita, raffreddori, tossi, antibiotici, vacanze, abbracci, sorelle, nipoti, regali, viaggi. Oppure potrei lasciare la pagina vuota, bianca, senza scrivere niente. E non perché non abbia niente da dire, semplicemente che è un momento così. Confuso, direi.
Sono arrabbiata, invidiosa, stanca. Ma sono anche grata, soddisfatta, felice. Possono convivere delle sensazioni così diverse e contrastanti tra loro? Poco importa della risposta logica, in me convivono eccome.

Oggi scrivo e poi non lo faccio. Lascio che ai pochi momenti disponibili si sommino cose da fare rimandate, ma non lo scrivere. Me ne pento ma non lo faccio, qualcosa vorrà pur dire. Che non è il momento, che non sento più la voglia, che non sono più brava (sono mai stata B R A V A? Ma che vuol dire, poi, essere brava?), che non è la mia priorità? Non lo so, non lo voglio sapere, non è importante. No, non lo è. Scoprire le motivazioni delle cose che non vanno come vorremmo, dei percorsi strani che prendono le parole prima di uscire di nuovo dalla mia testa. Certo, un silenzio così lungo è strano, per me, che sono la campionessa della regolarità. Ma sono 7 anni che sono qui, che sono presente, che scrivo, mi sono presa una vacanza (da me stessa). Diciamocelo. I blog personali non sono mai stati così tanto interessanti, oltretutto senza argomenti, come è il mio.
Forse c’è stato un periodo in cui andavano di moda, in cui erano più gettonati, complice anche il mio maggiore tempo da dedicare agli “altri” del mondo blogger. Adesso leggiucchio ogni tanto, ciò che mi va, qui ci arriva pochissima gente. Ma va bene così…io scrivo comunque, come quando avevo 15 anni. Scrivevo su quintali di carta ma non avevo nessun pubblico, se non me stessa.

Quindi a volte va così. Ci sei ma è come se non ci fossi, scrivi ma è solo nei tuoi pensieri. In compenso VIVI, ma quello lo fai davvero.

…e voi, mi raccomando, sperate che sia femmina 🙂

…sono meglio di Beyoncè vero? 🙂

LA MIA RIVOLUZIONE. LENTA.

standard 25 novembre 2016 8 responses

“Il tempo mi ha cambiato un po’
Il tempo mi ha cambiato un po’
Una cosa sola non cambia mai…”

Trentaquattro anni. Un po’ meno me ne sento addosso, non perché mi sia mai mancata la vita da vivere, ma forse solo perché ne vorrei vivere ancora di più, ogni giorno.

Trentaquattro anni e un giorno, al quale si sommano i pensieri e le consapevolezze di un lungo e importante anno trascorso.

Mi faccio gli auguri, i complimenti, sono stata brava. Non sono tanto fan dell’autocompiacimento, anzi, sto sempre a cercare il mio difetto, il mio errore, il mio problema. Ma no, non è stato un anno semplice. Sono tornata a lavoro dopo i mesi di maternità, sono sopravvissuta a svariati virus dolcemente portati da mio figlio, sono stata drammaticamente assonnata e infelice, impaurita, scossa, in ansia. Ho conosciuto persone meravigliose, molto spesso anche inconsapevoli di esserlo, ho passato giorni felici e ricchi, sotto il sole, sotto la pioggia, sotto l’abbraccio confortante di un amore che non manca mai, quello del mio compagno di vita. Ho trascorso momenti di rabbia e di lotta, con me stessa e non solo, momenti in cui desideravo fuggire e cambiare tutto, stufa di alcune prepotenti banalità quotidiane. E’ stato un anno fatto di 365 giorni più uno. In cui ho imparato, di nuovo, l’amore. In cui ho rimodellato per la milionesima volta i miei approcci troppo aggressivi e insistenti (chissà che sia stata la volta buona), ho ripensato alle amicizie, quelle vere, che voglio trattenere, nonostante tutto. E a quelle che invece basta così.

Me la sono cavata. Essere madre, moglie, amica, collega, donna nel modo in cui io pretendo da me stessa di esserlo non è semplice. Ma è una scelta, tra le priorità più pungenti, quelle di cui hai più bisogno…scegli e te ne prendi cura. Ho scelto me stessa, sopra a tutti. Questo forse non mi è stato perdonato, ma non importa, le strade che si percorrono sono belle perché sono a senso unico, ma la vita lascia sempre spazio alle sorprese, alle ri-scoperte, agli abbracci vecchi ma nuovi. Ho scelto di essere madre, di AMARE profondamente questo ruolo, nonostante i sacrifici, i momenti NO grandi come una casa, la voglia di lamentarsi che ti aspetta sempre dietro l’angolo. Ho scelto l’amore, come sempre, al primo posto nella mia vita.

Ho scelto di cliccare “mi piace” a tutti i post di auguri su Facebook, leggendo ogni parola, soffermandomi su alcune frasi, dediche, passando veloce su altre.

Ho scelto di cambiare, cambiare di una rivoluzione lenta e costante. Basta con le paure, con la solitudine, con l’imposizione della cordialità se non ne ho voglia. Basta con la diplomazia. Con le guerre fredde inutili e senza sbocchi.

La mia rivoluzione. Lenta. Include tutto. Anche te.

“Non ci fossi stata tu
Io oggi come sarei
Non ci fossi stata tu

Oggi non so com’ero vent’anni fa
Oggi non lo so più”
1993 – Boosta

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La mia prima scelta

ELASTICI

standard 27 ottobre 2016 3 responses

A volte si custodiscono delle cose che non si conoscono.

Sono sconosciute le forme, il contenuto, le intenzioni. Si custodiscono perché siamo persone protettive, per istinto materno o per casualità, per attenzione o egoismo, per paura, ansia o anche solo per distrarsi un po’.
Ieri ho raccolto una piccola foglia, dai confini frastagliati, l’ho poggiata lontano dalle mani distruttrici della piccola creatura che mi illudo di educare. L’ho protetta, senza conoscerla. Poi l’ho persa, ovviamente, come spesso mi succede nella baraonda delle giornate senza ne’ capo ne’ coda in cui mi tuffo, ma non per questo l’ho dimenticata. Questo faccio nelle mie giornate. Cerco.
Di non dimenticare, di non correre troppo o troppo poco, di esserci, presente, vera, reale, non quella specie di proiezione di me che non riconosco.

A volte custodisco me stessa, in una bolla fragile ma, a suo modo, resistente e stabile. Mi proteggo, ho bisogno di confini tangibili, di mani da trattenere e di occhi che supplichino attenzione. Mi proteggo da facili ostacoli, preferisco quelli più complicati. Me li lascio la notte, da sgranocchiare, perché passano meglio le mezzore di veglia accanto ad un figlio che non si arrende al sonno (quasi) mai.

Insomma, pare tutto un gioco di elastici. Elastici i sentimenti, elastico il tempo, elastiche le sensazioni vitali che mi trattengono dall’esagerare. E allora mi alleno ad essere elastica, a capire il significato dei cambiamenti continui, dell’imprevedibile consistenza delle giornate. A capire cosa è il movimento di fondo che ci rende così flessibili, ma non meno intensi, di un piccolo arco di bamboo.

Siamo elastici. Al mondo per modificarci e imparare.

Imparare ad essere genitori elastici, qualche esempio? Ok. Ad esempio: prima piangi perché lui piange, quando lo porti al nido. Poi piangi perché vorresti restare con lui, al nido. Ti piace vederlo crescere, interagire. Prendere i morsi dagli altri bambini, perché no, sapersela cavare.
Prima ti abitui a non dormire. Poi qualche ora. Poi tutta la notte. E poi si ricomincia da capo.
Prima ti abitui ai nuovi orari. Macchina. Asilo. Macchina. Lavoro.
Poi altri ancora. Macchina, asilo, autobus, lavoro. Corsa affannosa.
Poi è estate, bye bye Asilo.
Poi la baby Sitter.
Gli amici. I cazzo di virus. I dentini. I vaccini. La febbre.
Ovunque hai deciso potesse collocarsi il tuo piccolo, inutile, insignificante spazio…già non esiste più. Azzerato. Cancellato.

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Non è sufficiente? Lo so. Non credo lo sarà mai, perlomeno non sarà così per tutti. Ci sarà chi non vorrà o non potrà mettersi alla prova, come genitore elastico. Ci sarà chi si sentirà arrivato o chi non capirà mai le proprie potenzialità. Tra un affanno e l’altro, componendo il puzzle di ogni giorno, mi sento a volte spezzata a volte fortissima. Non esiste un elastico solo, nella mia scatola. Ogni giorno ne indosso uno diverso, per mantenere tutto in forma adeguatamente e il risultato è che, ovviamente, di adeguato non c’è mai niente.

Ma oggi è così che va, oggi mi sento adeguatamente me. Protetta al punto giusto. Mamma elastica e stravolta come piace a me.

Ps: non credo che la questione riguardi nessuno di voi lettori (se ancora ci siete). Però sappiate che non mi piace come chiudo i post. Inizio con un tenore e termino in discesa libera, senza criterio o legami, senza alcun senso a volte. Ma…va così. E’ il mio posto questo. Voletemi bene comunque.

LE COSE DI CUI NON HO BISOGNO

standard 23 agosto 2016 10 responses

Scrivere. Devo scrivere altrimenti quello che ho in testa e la frenesia delle mani se ne andranno.
Lasceranno il mio corpo stanco e assonnato.
Mentre faccio la doccia penso questo. E poi il tempo svanisce, si frantuma in mille pezzi per le continue priorità ribaltate. Qualcuno che piange e qualcuno che non sa consolare, continui solleciti e richieste. Sono stanca.
Stanca di essere indispensabile, stanca di ringraziare, stanca di dovermi affidare a qualcuno ma non poterci mai veramente contare. Stanca di essere così, perennemente rincorsa dal senso di colpa, con quella sensazione di essere sempre in debito, mai in credito. Un debito mai concluso, un mutuo pieno di interessi e scappatoie, stati d’ansia e futuro sconosciuto.
Sono stanca di questa precarietà, di domande senza risposta, senza possibilità di ordine.

Vorrei un attimo di silenzio, un attimo di solitudine.
Perdermi tra le strade senza meta dei miei pensieri, navigare nella moltitudine dell’inutile, chiudere gli occhi e non sentire più, ne’ con il cuore ne’ con le orecchie.
Silenzio e solitudine, due cose di cui (generalmente) non ho bisogno.

Non ho bisogno di progetti complicati.
Di scale ripide e fragili argomenti.
Ho bisogno di forza, quella che scorre nei muscoli del collo e delle braccia, quella che scorre nel caldo del sole.
Non ho bisogno di cioccolata amara.
Non ho bisogno di previsioni meteo rassicuranti. Di fardelli altrui, di ipocrisia, di approcci faticosi.
Ho bisogno di sincerità leggera, sorrisi, incontri casuali e rilassanti.
Di arte, di bello.

Attesa, Opera nr.22 (1)

Attesa, nr. 22 – fotografia di Mimmo Jodice

Di sbagliare, senza essere peccatrice.
Di vagare, senza precisa meta, rischiando di cadere.
Non ho bisogno di processi alle intenzioni, di malafede e sguardi inquisitori.
Ho bisogno di mangiare la pizza per la strada, a Napoli. Sentirmi parte di qualcosa, visitare un museo senza tempo che scade, senza orologi che vincono incontrastati ogni momento della giornata.
Di rendere possibile l’impossibile. Carezzare le mani del mio amore, levigando le sue paure e le mie.
Non ho bisogno di essere sempre mamma, perché prima di quello sono anche una persona, un bianco e nero spietato come le foto di Jodice (di cui mi sono innamorata profondamente dopo aver visto la sua mostra ampissima e curata con molta maestria al MADRE di Napoli).
Non ho bisogno di sicurezze. Nemmeno di tempo.
Ho bisogno di respirare fuori dal caos, ogni tanto. Apprezzare la mia vita, quello che ho fatto, quello che ho scelto di lasciare indietro. Le strade difficili che ho intrapreso senza rendermene conto, l’incoscienza che mi ha sempre aiutato a FARE. Senza pensare al POI.
Ho bisogno di riconoscermi anche quando non riesco, anche quando non raggiungo, anche quando mi sembra sempre poco.

Donne, mamme, amiche. Ma anche amici, perché no. In fondo è un pensiero che vale per tutti.
Riconoscetevi.
Non importa cosa facciate, dove passate le giornate, dove lasciate scorrere i minuti del prezioso tempo della vostra vita. Ma riconoscetevi. Guardatevi le mani, i calli, le rughe, le gambe stanche. La pancetta magari un po’ così, il naso storto. Ascoltatevi. Ascoltate le voci nelle orecchie, anche quelle più ruvide, quelle più stridule. Riconoscetevi quando fate la spesa, quando andate a correre, quando fate la pipì. Nelle cose più quotidiane, banali, ripetitive. Voi SIETE.
Respirate, a fondo. Fino a che l’aria tocca il fondo dei vostri polmoni e decide di uscire. Lasciatevi andare.
Riconoscetevi.
Questo è quello di cui, oggi, ho bisogno.

SILENZI E RINASCITE.

standard 26 maggio 2016 4 responses

Il panico è un cappio. Un cappio che stringe forte il più potente dei respiri, quello della vita.
Il panico è un cappio che chiude il cielo in un fagotto di buio. Senza vie d’uscita.
Il panico nasconde la realtà, distorce le emozioni, cancella ricordi solari e sorrisi immediati.

Non esiste più la razionalità, l’efficacia degli abbracci, il rumore confortante di un messaggio sul cellulare. Il panico soffoca. Distrugge. Ammalia come una sirena ammaliava Ulisse. Ti penetra le orecchie con il suo canto sensuale e ti stordisce, lasciando che il mondo visibile sia solo in bianco e nero. Senza sfumature o arcobaleni. Quando pensi di esserne uscito forse sei all’inizio della rinascita. Tutto quello che puoi fare è provare. Caricarti di sorrisi, come un mulo sulle strade impervie delle Ande si carica di provviste. Caricarti di positività, energie e soluzioni. Lasciando per la strada quello che non serve.

Si diventa materiali, essenziali, forse troppo egoisti. Si diventa lupi solitari che imparano di nuovo (ma forse mai lo avevano imparato) cosa vuol dire stare soli con se stessi. Si diventa aggressivi e storditi dalle continue richieste. Si prendono decisioni totalmente inconsapevoli, nelle quali ti troverai a sguazzare qualche tempo dopo, a leggerne e cercare di capirne le conseguenze. Si va avanti, sapendo che di risposte non ce ne sono, lasciando che le cose fluiscano, scorrano, creino i loro percorsi solitari, solcando letti di fiumi leggendari.

Certo non sono una mamma nata con il buco, come scrissi poco tempo fa. E di perfezioni nella mia vita non ne ho viste molte. Spesso ho perso tempo a colpevolizzarmi davanti allo specchio, a farmi analisi di coscienza e domandarmi come e dove poter recuperare, dove fosse lo spazio per uscire dall’acqua e riprendere fiato. Ma questo privilegio adesso non ce l’ho. Riesco a malapena a trovare la forza di alzare la mano fuori dalle onde per farmi scorgere da qualcuno, lontano, sulla riva. Sono sempre a corto di fiato, ma probabilmente non posso essere diversa da quella che ho sempre voluto essere, incastrandomi in mille pensieri, prima che diventino impegni materiali.

Come sempre faccio voli pindarici. Ho iniziato a scrivere questo post nemmeno ricordo quando, l’ho corretto altre 4 o 5 volte sperando di finirlo, invece è rimasto qui, in attesa del suo momento (e del mio tempo). In questi giorni, in queste settimane, sono successe tante cose. Sono stati momenti intensi, di riflessione importante per me e, probabilmente, anche per chi mi sta intorno. Mi piace la vita, in tutte le sue sconnessioni e riconnessioni, in quello che regala comunque, anche nei giorni di vento in cui i capelli di parano gli occhi e non si vede più l’orizzonte, appiglio sempre valido e caro. Mi piace l’uso della parola, di cui spesso mi riempio le mani piuttosto che la bocca, non riuscendo come vorrei ad esprimere vicinanza ed empatia. Mi piace sbagliare, correggere (se possibile e se accettato), mi piace mettere alla prova con incoscienza tutto ciò che passa attraverso di me.

Certo è che, nei miei infiniti voli pindarici, dal decollo (crisi di panico) all’atterraggio, non dovete cercare tra le righe. Quello che voglio dire lo dico, con buona pace dei maligni. Quello che non c’è scritto non c’è e basta, non esiste. E se vi pare di scorgere qualcosa che parla di voi, sicuramente vi sbagliate. Io non so parlare per nessun altro che per me.

E’ il mio modo di fare introspezione, di conoscermi, di analizzare tutto fino allo sfinimento.

Fino a che anche il più tenace momento di panico si stufa…e se ne va. Lasciandomi sorridere.

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Le mie pause dall’ordinario

NON TUTTE LE MAMME NASCONO COL BUCO.

standard 15 aprile 2016 15 responses

Bach. Sinfonia sulla IV corda.
Immagino Piero Angela che racconta la mia storia (che lusso sarebbe). La mia storia lunga un anno, quello più intenso e forte che si può immaginare.

Primo mese. Potrei dire primo giorno, prima ora, primo sguardo. Non c’è un momento che non valga la pena raccontare. Così come non c’è un momento che non vorresti tornare indietro. Alla libertà di scelta. All’emancipazione. A quando potevi decidere di te stessa e per te stessa. Pochi momenti per pensare, pochissimi per andare al bagno, zero di solitudine. Rigurgiti come se piovesse. Ti senti come se ti fosse passato un tir sopra tutte le ossa, gli occhi pesano, i pensieri anche. Il cesareo non lo hai ancora “smaltito” e il corpo che vedi allo specchio è nuovamente cambiato. Ti chiedi se ce la puoi fare, la risposta è si, a tratti, come le code in autostrada.

Secondo mese. Le cose sulle quali ti eri soffermata a riflettere del primo mese prendono forma, si plasmano sulla solitudine che aumenta in maniera proporzionale alla perdita dell’indipendenza. Una solitudine fatta di due individui fusi in un’unica richiesta: amore. L’amore che si riflette, si allunga come il sole che tramonta sempre più tardi, lasciando il suo residuo in ogni giornata, rendendola lunga, infinita, difficile. Il baby blues ormai è roba passata ma le lacune di cui riempi le tue giornate sono consapevolezze. Anche se non hai più paura a mettergli il pannolino e il seno non è dolorante, ogni mattina è una sfida. Sfida a te stessa, stanca, sfatta, consumata. L’amore che si riflette, si, con il fastidio. Ma, nonostante tutto, sei sempre lì. Sveglia. Reperibile.

Terzo mese. Caldo. Torrido e insopportabile. Caldo impossibile anche per te, amante del sole. Esci, ma non basta. Passeggiate a qualsiasi ora, supermercati, centri commerciali, macchina ossessivamente parcheggiata all’ombra per non friggere un figlio ancora minuscolo ma che ti fa sentire potente, indispensabile, fiera. Alcune paure sono archiviate, altre sono in agguato. Ti accorgi che non puoi soffermarti mai, tirare il fiato, essere protetta dalla sicurezza di un obiettivo raggiunto. No, non basta. E’ sempre tempo di cambiamenti per te e per EliaMirtillo.

Quarto mese. Ancora caldo. Pazienza arrivata ad una soglia mai conosciuta prima. Le notti in bianco sono innumerevoli, quelle poche ore che riesci a mettere insieme di sonno sono un traguardo degno di una ultra maratona di montagna. Però sopravvivi. Ti imponi per farlo almeno una doccia al giorno, per spazzare via pensieri, per coccolarti 5 minuti, per concederti respiro, vuoto, per abbattere il senso di colpa. Quello che ti assale subito dopo aver inveito perché non cedi al sonno, per l’ennesimo rigurgito sul divano, sul bavaglio pulito, sulla tutina nuova. Speri in una compagnia che manca, manca sempre. L’amicizia assume nuove prospettive. Vai avanti, un passetto in più. La sdraietta è un’alleata, insieme alla fascia, per qualche minuto di pace. Perché i tuoi occhi sono sempre più attivi, attenti, vispi. Perché la tua crescita è la sostanza e il compimento di ogni giorno.

Quinto mese. L’estate è quasi passata. Il mare lo hai conosciuto per un giorno, ti è piaciuto. Sei sempre più coccoloso e tornito, intanto si avvicina la data del matrimonio e con lui anche lo svezzamento. Ogni cucchiaio che passa ti rendi conto che si, c’è sempre qualcosa di cui lamentarsi. Basta saper smettere al momento giusto e riconoscere tutto il bello fatto fino a quel momento e tutto il bello che dovrà ancora arrivare. Pensi al ritorno al lavoro, al nido, progetti che devi archiviare ma altri che non vuoi mollare, nonostante il tempo sia sempre più nemico delle tue giornate. Con le pappe arriva un’altra carrellata di ansie. Impegni. Scelte. Passi da fare con calma. Tutto quello che credevi impossibile da chiedere a te stessa lo fai senza nemmeno accorgerti di farlo.

Sesto mese. Aggiungi ingredienti alle pappe. Vedi i continui progressi di tuo figlio. Hai voglia disperata di fare qualcosa per te, solo per te. Torni a correre, non ci sono alternative, è quello che vuoi fare. Vorresti anche uscire con le amiche, leggere, fare un viaggio, stare spensierata su un prato lasciando tutti fuori dalla porta. A piccoli ma costanti passi capisci cosa è meglio per te. E quello che è meglio per te è sicuramente la cosa migliore che puoi fare anche per tuo figlio. Non è presunzione è solo una deviazione che hai trovato sul cammino. Di quelle irreversibili. Non hai più voglia di chiedere, insistere, mendicare. Inizi a tirare su un po’ di muri, per proteggere la tua vita stanca, perché non cerchi compassione ma complicità, condivisione. Ci sono degli spazi che ti fanno tirare il fiato e ci sono, soprattutto, le risate del tuo bimbo.

Settimo mese. La tua voce è dolcissima. Parla di “tatatata bababababa mamamamama”, di mondi colorati e sospesi, parla di armonie, di passeggiate, di scoperte che ti fanno ammirare tutto con occhi nuovi, quelli del tuo bambino. E’ filtro magico e caleidoscopico, il tuo sguardo acceso, mai domo. E’ sempre più bella la sua dolce compagnia, quella di un bambino tranquillo e osservatore come il papa’ ma curioso e un po’ folle come la mamma…peccato per le notti. Dure, minacciose, buie. Le luci artificiali che le illuminano la stanza non sono abbastanza. Perché è così difficile? Cosa stai sbagliando? Perché? Ti riempi di domande, alternando momenti di totale disperazione con altri di speranza. Ma, al momento, non ci sono vie d’uscita. Il tuo ottimismo infinito vacilla. Le gambe tremano.

Ottavo mese. Torni a lavoro. E’ dura stare senza di lui, senza il tuo tempo libero guadagnato nelle ore dell’asilo, è dura trovare un nuovo “nuovo” inizio. Ma a quanto pare la vita di ogni essere umano, se donna soprattutto, è destinato a questo. Riadattarsi. Riplasmarsi. Mettere un punto e ripartire da zero. Essere una persona uguale ma diversa, rischiando ogni volta di non riconoscerti, perché non solo cambia l’estetica ma anche le aspettative che hai su te stessa, su tutto quello che ti sembra di fare e, invece, agli occhi degli altri, ti accorgi di non fare. Insomma…ti senti trasparente. Ma forse è meglio così. EliaMirtillo cresce, sta seduto bene, si rende conto di ciò che succede intorno, si fa amare per la sua dolcezza infinita, per la sua morbidezza cronica, per la sua pelle liscia e profumata, per quella bava così copiosa. Si fa amare perché non può essere altrimenti, ai tuoi occhi, innamorati.

Nono mese. Il primo Natale, il primo anno nuovo, il primo antibiotico, la prima febbre, tosse, bronchite, virus gastrointestinale. I primi 3 fine settimana a disperarsi perché stai male. Nono mese, sesta malattia. La prima corsa al Meyer con il cuore in gola per una febbre che non vuole scendere sotto i 40°. Poi passa. Passa e ti senti invincibile. Nonostante la stanchezza assuma delle forme di sopravvivenza mai conosciute e pensate prima, nonostante le gambe cedano ma molto più spesso cedano i nervi. Passa tutto. La regola imparata in questi mesi, vivere alla giornata, è indispensabile ora più che mai, per non pensare troppo al domani, per non illudersi ne caricarsi troppo di afflizione e ansie. Insomma…tutto regolare. Essere mamma ti sta insegnando tantissimo. Ti sta togliendo degli orpelli, ti ha reso più pratica e meno filosofica. Ti fa sorridere sulle cose che prima ti preoccupavano. E’ come se davanti a te ci fosse un grandissimo casellario e tutte le priorità si fossero scombinate e avessero lasciato libere tante caselle sparse. L’abilità di riposizionarle, piano piano, è sempre più immediata.
Ah. Si sono fatti avanti i primi due dentini.

Decimo mese. Dopo mesi di preoccupante stabilità, finalmente gattoni. E come ogni volta ti trovi a “maledire” il momento in cui hai desiderato che scoprisse nuovi mondi, come sempre ti è successo in questi mesi. Perché essere madri è un percorso a tappe, dove conosci ciò che hai appena passato, per il quale hai conquistato la maglia gialla, quella rosa e quella del gran premio della montagna. Ma le tappe che verranno le aspetti con ansia e inquietudine, curiosità e fibrillazione, sperando in evoluzioni che quando arrivano non sai ancora come affrontare. Gestire le potenzialità di un piccolo essere che, piano piano, si sta staccando da te, potenzialità che non sono “tue” ma appartengono ad un “altro” che comunque fa affidamento completamente su di te. Insomma, un gran casino. Il bello del gioco è tutto qui, nel farsi confondere da tutto questo casino, rimanendo sempre con il sorriso sulle labbra. E come si fa a non esserlo, con lui accanto?

Undicesimo mese. Il tempo passa così velocemente, complici le settimane lavorative intense, che non hai nemmeno tempo di pensare a quello che sta per arrivare. Il suo primo compleanno (tadadadaaaaaaan). Non sai se vorrai festeggiare, sei confusa, ti senti in una specie di baraonda che ti fa rimbombare le orecchie. In fondo è una festa più per te che per lui, inconsapevole attore protagonista di questi 366 giorni intensi e, talvolta, complicati. Ma piano piano intravedi un barlume di vita, le notti cominciano ad essere meno pesanti e, dopo tanti tentativi, sacrifici inutili, forse hai trovato la strada giusta per la sopravvivenza: niente tetta la notte e via, in camera da solo, come i bimbi grandi. Improvvisamente ti chiedi perché non lo hai fatto prima. Perché forse per tutte le cose esiste un momento giusto? Perché è arrivato quel momento. In cui sei consapevole che ce la puoi fare da solo, quasi fino a sentirti ricco e straripante d’amore. Il momento in cui la fortuna e l’amore pieno vanno di pari passo, camminando in sincronia. In cui non hai bisogno di abbracci rassicuranti di continuo ma solo a giorni alterni. Il momento in cui senti di dover lasciar in pace tutti, dai tuoi tormenti, perché essere mamma agli occhi degli altri è di una noia incredibile. Invece agli occhi tuoi sta prendendo una forma quasi divertente, alla quale non potevi credere fino a qualche tempo fa. Essere mamma è un percorso, come lo è la felicità. All’inizio ti sembra impossibile, un tunnel afoso e soffocante, senza uscite. Poi diventa difficile, un ginepraio di rovi ma forse districabili. Poi diventa fattibile, pieno di ansie e graffi, ma quei rovi si trasformano piano piano in foglie verdi lucide, nuove. Poi diventa reale. Consapevole. Giusto. Bello come devono essere le cose belle. Quasi inspiegabilmente ti piace anche quella “solitudine a due” che prima ti chiudeva a doppia mandata la gola.

Dodicesimo mese. Ci siamo. Aprile è qui. Il 15 aprile saranno terminati i 12 mesi dalla sua (e tua) nascita. Compirà un anno. Quel cosetto lì, insignificante ma indelebile, con quelle gambette corte e ciccione, con le mani tornite e gli occhi marroni scuri, quel panzone lì compirà un anno. Quello che ti ha fatto penare di notte e gioire di giorno, quello che ti butta le braccia al collo ogni volta che ti vede, facendoti spappolare il cuore di gioia, quello che tu amerai, incondizionatamente ogni istante ma che all’inizio non sapevi come fare, e ti sei chiesta tante volte se quella fosse stata la cosa giusta. E ora invece ti chiedi se farla di nuovo, sta cosa. Perché nel tempo ti sei data delle risposte, il tempo come sempre ha aiutato a dipanare anche queste matasse strane e sconosciute. La sensazione è bella, ora. Respiri a pieno la primavera, le belle giornate, i suoi sorrisi sull’altalena, ti prendi tutto il meglio e se non hai occasione di farlo ti manca, perché è fiorita e profumata, questa primavera. E’ ricca di sole, di margini di miglioramento, è morbida al tatto come l’erba del prato di casa tua. Quella dove lo hai seduto per fargli assaggiare le prime margherite, lasciandolo per un attimo fuori dall’eterno controllo che vorresti, per lui.

1annoElia

Passo dopo Passo…

La sinfonia è finita. Per un attimo ti senti persa, senza musica. Ti guardi intorno, le mura della vostra piccola casa vi proteggono. Sono piene di colori, così come vorresti fossero sempre le sue giornate, senza preoccupazioni, paure, dolori. Non è il tempo di pensare a questo, è tempo di festeggiare. Di stare insieme, condividere, spegnere la prima candelina.

E mentre la lucina fluttuante si spegne, spengo pensieri e parole e corro da te.

NOVE. NOVE.

standard 28 gennaio 2016 18 responses

Ho preso in mano la tazza, ancora bollente, il filo della tisana pendeva fuori, facendo il solletico alle mie mani. Il fumo disegna delle strane virgole nell’aria, la profuma di agrumi, di giardini segreti, di rosa canina, di piccoli petali essiccati al sole. Nonostante il freddo, mi fa pensare all’estate.
Cerco di non fare rumore, mentre cammino verso la finestra. Vorrei guardare fuori, osservare in silenzio il tempo che scorre attraverso i passi svelti degli sconosciuti. Arrivo alla finestra, il vetro si appanna con il calore della tisana, che non accenna a diminuire. Mi tiene sveglia, attenta, vigile. Mi ricarica. Mi libera la mente dall’affollamento che sento, in queste giornate grigie ma piene di colori, suoni, faccende.
Disegno un 9, sul vetro appannato. Un numero tondo, sembra un pesciolino. Un simbolo al quale affido i miei pensieri di oggi. Un numero che riempio di ricordi, di passi importanti, di quello che ero e ciò che sono diventata.

Nove, come i mesi che hai passato dentro di me, Elia Mirtillo, mio piccolo cavaliere con pochi capelli e molti sorrisi. Nove, come i mesi che hai vissuto fuori da me, un nuovo compleanno, un nuovo inizio. L’inizio della tua vita da grande. Nove contro nove. Una simbiosi continua, profonda, stabile, che ha messo le sue radici legandoci eternamente.

9 mesi

9 + 9 fa 18 mesi di noi tre

Per festeggiare i nostri nove mesi ho rimesso i panni da corsa, ho deciso che era arrivato il momento. Erano (più di 9) mesi che lo aspettavo, questo momento. Qualcosa tutto per me, un paio d’ore in cui non pensare a niente (o a tutto?), in cui guardarmi intorno senza preoccuparmi di qualcosa di specifico se non di mettere i piedi bene a terra, muoverli facendo appoggiare tutta la pianta, sentire scorrere metri e chilometri come piace a me. E’ stato bello, bellissimo. E’ stato come festeggiare un compleanno con la torta preferita, piena di cioccolato e frutta fresca, crema al cocco e mascarpone, una torta della quale puoi mangiare tutte le fette che vuoi senza sentirti in colpa. Ho ascoltato la città, tutti i rumori sommessi dei passi degli altri, le voci dei pacemaker, gli abbracci degli amici che non vedevo da tempo, anche se ancora non posso correre con loro. Ho ripreso in mano le fila di qualcosa che stava andando perso, che sapevo di amare ma non così tanto. Perché ho sempre abbandonato tutto, via via, un po’ come accade nelle nostre vite frenetiche. Scegli una passione, oppure lei sceglie te, ed essendo passione brucia, finisce, scompare. Alcune invece sono sempre lì, sopite, vivono con te, aspettano se c’è da aspettare, con pazienza, che torni il loro momento.
Ciò che amo, dunque, rimane lì. Magari non progredisce ma rimane, si riempie di polvere ma rimane. Si arrugginisce, come arrugginite erano le giunture delle mie ginocchia, ma comunque rimane. E la magia che si compie quando ritrovi sotto il sottile velo dei ricordi queste passioni è qualcosa di inspiegabile, per chi vive la vita come me, come se tutto fosse un dono, niente di scontato, niente di ovvio.

E quindi per me questi secondi nove mesi sono stati magici. In qualche modo lo sono tutte le 24 ore che vivo (perché ahimè vi assicuro che anche le mie notti sono molto vissute…), cercando di destreggiarmi tra impegni utili e disutili, senza perdere un attimo a piangermi addosso, anche se talvolta la tentazione è forte (qualche minuto, ammetto, me lo concedo…). E quando ci chiediamo come si fa ad essere tante cose insieme, scordandoci una linearità, una logica, una pulizia di idee, forse l’unica cosa che dovremmo fare è quella di vedere realmente ciò che abbiamo.
E’ un esercizio utile all’amor proprio perché tutti abbiamo qualcosa di cui andare fieri e per cui gioire. Un muffin che ci riesce particolarmente bene, il cane che ci ama incondizionatamente, gli occhi grati del marito che voleva le lasagne proprio in quel modo, le nostre scarpe da corsa da cambiare ma che ci seguono fedeli ad ogni passo, il tramonto che vedi ogni sera dalla finestra del bagno, il sorriso sdentato del bambino più bello del mondo, il tuo.
Insomma, la perfezione non esiste. Non saremo mai mamme, compagne, mogli, colleghe, amiche, sorelle perfette. Quello che dobbiamo sempre rispondere, quando ce lo chiediamo, quando la voce nella nostra testa non fa silenzio e ci tormenta di domande, di perché, di questioni vitali ed inutili, è che abbiamo fatto del nostro meglio. Per noi stesse, ovvio. Perché se cerchiamo il meglio per noi, e siamo felici, ciò che ci gira intorno sarà felice. Mariti, figli, amici, saranno felici, se ci amano. Forse amare è proprio la forma di egoismo più pura e semplice, ma essenziale al nostro fiato per permetterci, appunto, di fare IL NOSTRO MEGLIO.

Ecco, in questi importanti 9 mesi di domande, paure, pianti e crisi, ci ho provato, con tutta me stessa.

HURRY UP.

standard 22 dicembre 2015 6 responses

Presto che è tardi.
Corri.
Apri gli occhi.
Sveglia.
Tic tac.
Noncelafaròmai.
Mammamamamamambabbababdadadadadattatatatatata.
Si, buongiorno chicco.
Cazzooooooooo non ho sentito la sveglia!
Sono già le sette (di mattina).
Ho sonno.

Con il Bianconiglio sotto braccio inizio tutte le mie giornate. Ma manca un giorno, un solo giorno. Qualche ora di lavoro, qualche non ora di sonno, qualche lavatrice in più e ci siamo, vacanze. Vacanze da me stessa, vacanze dalla fretta (forse…), vacanze dalla sveglia del cellulare. Ma, c’è un ma. Prima delle vacanze, devo fare la valigia.

Valigia di nuvole e pensieri, quella che metto via, leggera e intensa, di un 2015 denso come la nebbia di questi giorni. Raccolgo tutte le cose che sono successe in questo anno e le metto lì, da una parte, ho bisogno di ordine. Le raccolgo come fossero margherite in uno sconfinato prato verde, in primavera. Bianche, piccole, innocenti, luminose. Fanno volume perché sono tante, ma la loro morbidezza le rende accoglienti e piacevoli al tatto. Somigliano molto al mio vaporoso vestito da sposa. Bello il mio vestito. Lo adoro. Vorrei metterlo di nuovo solo per provare quella sensazione di frizzante brulichio nello stomaco che avevo quel giorno. Entro nella valigia anche io perché ho bisogno di luce. Di profumo inebriante, di rinascita. Ho bisogno di cancellare con quel candore le mie occhiaie, fisse ed indesiderate ospiti del mio volto stanco.
Faccio la valigia e penso a ciò di cui ho bisogno, che non si può comprare, non si può barattare, non è monetizzabile e non ha forme definite.

TEMPO.

Tempo sotto forma di secondi, minuti, ore. Tempo per gustare, accarezzare e soppesare. Tempo da perdere, tempo in abbondanza, tempo relativo. Un tempo senza lancette dove godere la vita in ogni sua sfumatura boreale.
Tempo. Il tempo immateriale e ingestibile, non elastico e un po’ infame. Tempo. Del tutto diverso da una valigia dove puoi infilare le tue cose fino a farla esplodere. Tempo maledettamente corto e mai abbastanza. Perpetuo, costante, inesorabile. Vince sempre lui.
Tempo delicato. Prezioso. Ce ne dobbiamo prendere cura.
Tempo amico e nemico, bastardo e gentiluomo, illegittimo detentore delle mie giornate corte ed in affanno. Ti osanniamo, ti vogliamo, ti desideriamo più di qualsiasi attore o di qualsiasi gioiello. Ti ripetiamo, come mantra, come se bastasse per prolungare la durata delle cose belle. Se tu fossi uomo, Tempo, io sarei una moglie adultera.
Tempo. Ti bramo. Ma non posso averti come vorrei. In fondo non sei tanto diverso da tutte le altre cose necessarie della vita.

Faccio la valigia e sospiro. Mi guardo intorno, come un fermo immagine aspetto che la giostra si fermi.
Un solo attimo. Prima che sia troppo tardi per chiedere di respirare senza affanno.
E’ difficile, ma è bello anche così. Rimbalzare impazzita e carica di sonno non diminuisce la mia fortuna.
Grazie, questa vita è una cosa meravigliosa.

Auguri a tutti <3

felicità